Ormai, tra un paio di mesi, a venticinque anni da questa pubblicazione preceduta da un convegno e seguita da molti seminari legati all’accompagnamento alla morte, al lutto nelle sue variabili motivazioni – malattia, auto– o eteroviolenza, casualità accidentale –, mi pare sia arrivato il momento di rispolverare quei percorsi psicologici individuali e di gruppo per dare un significato simbolico ad un certo evento.

L’evento è, ovviamente, l’omicidio di Giulia Cecchettin e i comportamenti tenuti dai suoi familiari – padre, sorella e nonna – dal momento della sua sospetta scomparsa all’attualità della sentenza per il suo assassino.

Che la morte, nella modernità, abbia perduto ogni significato di incomunicabile sacralità, è ampiamente documentato da psicoanalisti del calibro di Charles Melman e di Aldo Carotenuto a intellettuali come Massimo Fini ed Emil Cioran. Tutto deve diventare disponibile alla spettacolarizzazione plebea: dai selfie davanti alla bara fino all’apoteosi del discutibile applauso funerario.

A parte i funerali di Stato, che sempre sono serviti a consolidare un certo potere simbolico attraverso l’esposizione evocativa della potenza del defunto, nel privato l’avvenuta mancanza più o meno improvvisa e più o meno fisiologica di un proprio caro veniva gestita in una atmosfera di meditativa quiete.

Tralasciando le note fasi del lutto, la veglia, le esequie e il composto periodo successivo erano caratterizzati da un silenzio esteriore per la necessaria elaborazione interiore dell’assenza. La morte codifica una separazione incomprensibile con gli strumenti della ragione, e il vuoto può essere riempito solo con strumenti psichici, siano essi spontanei oppure offerti in un percorso di consapevolezza.

Lento processo di introiezione della figura significativa scomparsa e, fenomeno fondamentale per una successiva serenità, lavoro psicologico sulle proprie emozioni negative legate a più o meno reali rimorsi e rimpianti. Per altro è evidente che, più equilibrati e sani erano i rapporti negli anni passati, più sana ed equilibrata è l’accettazione della morte, sia personale che altrui.

Tra i comportamenti psicologicamente patologici nell’affrontare il lutto c’è la confusione, l’iperattività, la logorrea, l’agitazione, la rabbia, la rivendicazione: queste ed altre modalità, inconsapevoli e non, per sfuggire soprattutto all’esame di sé in rapporto alla persona scomparsa.

Da “tecnico” non mi interessano eventuali motivi di interesse commerciale nella nonna sorridente alla presentazione di un suo libro mentre Giulia era in obitorio, né calcolate aspirazioni nella gestione editoriale e pubblicitaria del padre, e neppure di velleità politiche nelle penose interferenze anche giudiziarie della sorella. Da “tecnico” vedo, piuttosto, dei legami precari da analizzare, delle ambiguità educative da chiarire, delle interferenze affettive da sciogliere, una figura paterna da chiarire. Tutti abbiamo la famosa Ombra junghiana da introiettare e neutralizzare, e solo così troveremo la meritata pace con noi stessi, magare pure evitando di fare danni ad altri.

Un pensiero a Turetta, il ventitreenne ergastolano portato suo malgrado e falsamente a simbolo malefico di un patriarcato inesistente, mentre dovrebbe essere semplicemente compatito come esempio fallimentare di una struttura caratteriale debole e perciò reattivamente violenta.

“Nessuno, di fronte alle donne, è più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità”, ha scritto Simone de Beauvoir, e su questa considerazione di una illustre protofemminista bisogna meditare, prima di farsi prendere la mano da stupide, false e fuorvianti battaglie. Ma questa è un’altra storia.