Così conclude il grande Giorgio Gaber la splendida composizione – per altro ancora attuale – che si intitola Quando è moda è moda, e più precisamente canta: “Sono diverso perché quando è merda è merda non ha importanza la specificazione”. Ecco, sono diverso perché trovo semplicemente scandalosa la doppia morale di certi fenomeni della comunicazione che invocano, a discrezione, il silenziamento per tutti i non allineati al loro discutibile pensiero – penso a quanto è avvenuto durante la farsa pandemica –, mentre si esibiscono in convulsioni democratiche a difesa di quel Nicolò Rapisarda, in arte Tony Effe, che scrive testi meritevoli di approfondimento psicopatologico. Sono diverso perché credo che quel ridicolo cascame che risponde al nome di Jovanotti sia da indicare quale esempio di terminale moralismo e di squallida povertà culturale nel momento in cui afferma che “Tony Effe e Mozart sono colleghi”.

Per far capire ai sinistri giullari e ai mancini censori a corrente alternata, che parlano di arte spacciandosi per conoscitori illimitati e senza remore, quale sia la cornice concettuale e l’obiettivo etico di quella operazione che può definirsi artistica, non voglio ricordare il principale filosofo marxista come György Lukács che parlò dell’estetica borghese come “articolo voluttuario destinato a parassiti oziosi”, né riferirmi a quel Marco Fabio Quintiliano, primo docente statale di retorica che scrisse “Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem” (la comprensione della valenza simbolica del comprensione da parte del colto, rispetto all’opinione sentimentale e personale del dilettante). Ricordo, a proposito, quel Gaber che nel brano “La razza in estinzione” recitava “Non mi piace la troppa informazione/Odio anche i giornali e la televisione/La cultura per le masse è un’idiozia/La fila coi panini davanti ai musei mi fa malinconia”.

Il mio riferimento artistico si situa su un piano diverso e più elevato di quella miserevole e sguaiata considerazione secondo la quale tutto deve essere concesso di dire e di fare il nome di una equivoca e discutibile libertà di espressione. Il più volte citato Javier Ruiz Portella, già condannato e ricercato dalla giustizia spagnola in quanto militante del Partito Comunista Rivoluzionario, e poi rientrato dopo due anni di esperienza nei Paesi dell’Est con una ideologia riveduta e corretta, parla giustamente di una questione ontologica dell’arte, ovvero di alcuni suoi princìpi assoluti come il valore eterno dell’opera nella memoria e nell’esempio, il criterio di trascendenza per cui “non ogni cosa può essere opera d’arte”, il valore educativo nel senso spirituale del termine.

Questo prolungato tramonto di una civiltà, osserva acutamente Portella, ha messo in evidenza “un fenomeno che nessuno, in nessun’altra epoca, aveva mai conosciuto: la distruzione sistematica della bellezza (ovvero) l’innalzare il brutto e il volgare al posto del bello. [Questo spiega] perché il nostro mondo è l’unico capace di piazzare insieme cadaveri e merda nello stesso luogo in cui altri mondi mettevano un David di Michelangelo o una Nike di Samotracia”.

Per quanto riguarda poi il contenuto di certi testi e la personalità di certi autori, questi dovrebbero essere delegati, per dovuta competenza, come già accennato, all’analisi di esperti di psico- e sociopatologia, ma questa è un’altra questione. A questo punto la censura diventa un atto dovuto di prevenzione di primo grado e di igiene mentale.