Non è la prima volta che si accende il dibattito sull’abbigliamento delle donne musulmane, sui diritti religiosi, sulla compatibilità con le consuetudini dello Stato di accoglienza, sul rispetto delle singole identità, sull’educazione alla tolleranza, sulle strategie di integrazione. Si continua ad assistere ad un vero e proprio delirio di ipotesi, ad una verbosità tanto ossessiva quanto è inutile, ad una impotente esibizione di più o meno onesti chiacchieroni.

In tempi non sospetti qualcuno ha precisato che più uno Stato è corrotto e fallimentare, più leggi vengono promulgate. Mi pare che il nostro confermi ampiamente questa antica ipotesi.

l problema essenziale, però, è sicuramente difficile da affrontare. Siamo di fronte a una confusione non solo concettuale, ma ad una vera e propria alterazione dell’idea stessa di Stato e di politica. Senza scomodare Carl Schmitt, cerchiamo di chiarire questa questione nei termini più semplici possibili.

Fintanto che ci sarà una disordinata commistione tra l’azione politica e la pratica amministrativa anche la più piccola organizzazione sociale sarà predisposta alla paralisi e alla confusione. Essere un eccellente politico non significa saper affrontare i problemi pratici e le questioni burocratiche, così per un encomiabile tecnico in ambito economico, logistico o gestionale non è scontata la capacità di visione e di fantasia in senso sistemico e non parcellizzato.

Andare in spiaggia vestite, l’uso del chador o dell’hijab o del niqāb o del burqa, il divieto della musica o della ginnastica non sono questioni affrontabili con indicazioni di buon gusto, prescrizioni di buon senso: sono consuetudini storiche e sociali che possono essere perfettamente inserite nel contesto di origine.

Altro è quando questi costumi specifici contrastano con il nuovo contesto di appartenenza, quando minoranze agguerrite cercano di imporsi all’istituzioni preesistenti, quando queste istituzioni si trovano costrette a mediare e a scendere a patti quotidianamente.

La classe politica borghese e democratica, che Donoso Cortes definiva degli habladores, dei desquisitores, legifera, consiglia, raccomanda, spiega, suggerisce, ammonisce, esorta, sollecita ed altre amene tanto suggestive quanto inutili indicazioni. Questa è la mentalità del burocrate, che non sogna, che non immagina, che non è in sé la potenza, e che crede di risolvere tutto con le scartoffie.

Il politico no. Il politico conosce la propria storia, si impegna a costruire il proprio destino, si concentra quotidianamente sulla realizzazione della sua visione del mondo. È stato un filosofo, e non un tecnico, a ideare il programma telematico per i medici: si dimostra la differenza tra chi si concentra sul dito e chi scrive un sonetto alla luna.