Sia chiaro da subito: il concetto di fallimento è rigorosamente inteso come deriva esistenziale, come debilitazione psichica, come autopercezione di nullità. Niente a che vedere, quindi, con le evidenze sociali di carriera, la riuscita economica e i riconoscimenti ufficiali.
La considerazione negativa e fallimentare di sé è impermeabile a qualunque risultato esteriore positivo, per cui il soggetto è costretto in maniera patologica a negare questo suo sentimento interiore attraverso continue operazioni di intervento sulla realtà.
È questa la caratteristica, ad esempio, dei critici e degli opinionisti. Scavi un po’ nella loro vita, prendi in considerazione le qualità delle loro famiglie, scopri le reputazioni su di loro in ambiente di lavoro, analizzi la consistenza delle loro relazioni, fai una osservazione approfondita sul loro esito esistenziale e alla fine ti chiedi: con che faccia questi fenomeni criticano gli altri? Con che coraggio questi esperimenti si permettono di dare consigli e di esprimere i giudizi? La risposta è piuttosto semplice, interessa specificamente il campo psichico ed è riassunta in una osservazione dello psicologo junghiano Aldo Carotenuto, il quale giustamente evidenziò come è particolarmente difficile, se non inutile, far comprendere alle persone che ci sono delle cose dentro di loro che non funzionano, quando tutta la vita esteriore sta andando bene.
Per fare un unico e clamoroso esempio, basta pensare ormai all’ultracitato presidente francese. Arrivare a una presidenza della Repubblica e ad una fama internazionale, apparentemente sembra una vita riuscita, ma se approfondiamo il discorso psichico, Macron è soltanto uno psicopatico narcisista che deve soffocare le sue insufficienze e i suoi fallimenti interiori con quella che gli specialisti definiscono testualmente la “maschera della normalità”.
Questo in grande. Poi ci sono i tanti, piccoli, fastidiosi e insopportabili maestrini della quotidianità, guitti delle banalità, figuranti dell’ovvio e del bravo pensierino. Sono quelli soffocati dai rimpianti per un passato irriferibile, tanto scialbo e insignificante; quelli che quando parlano della loro sfiorita giovinezza, per dirla alla Gaber, riferiscono “sogni sognati da altri sognatori”. Sono quelli che, davanti al futuro, non riescono a gestire la sana inquietudine che tutti normalmente provano nel riconoscere l’approssimarsi della naturale fine, allora riempiono il presente con il movimento parossistico e afinalistico, si inventano qualunque tipo di diversivo per non far emergere alla coscienza le miserie del passato e gli inconcludenti progetti mai messi in opera.
È così che l’angoscia nel rischio di guardare dentro di sé, nel constatare che quella che loro credevano felicità era soltanto la negazione patologica e tossica della loro esistenza, viene continuamente sedata in un incessante movimento di ricerca di novità, di curiosità, di frivoli interessi e anche di fughe ambientali – come cantò Roberto Vecchioni prima di deteriorarsi con l’età: “E contro il niente, adesso parte / ogni mezz’ora, un volo charter / itinerario di gran moda” –, la scelta di tuffarsi in un vuoto esteriore, per evitare di affrontare quello interiore.
Nella generale inutilità di certe persone – gli ilici dello gnosticismo, la scala più bassa dell’umanità – c’è poi una percentuale che arriva al punto di essere deleteria e insalubre, non solo superflua e sterile: la setta degli invidiosi che, come l’Idra dalle molteplici teste, ha anche molte molteplici espressioni, e una di queste è la critica politica. Per questi relitti dell’umana intelligenza, la parola d’ordine è: Sputtanare! Non importa la cognizione di causa, neppure la documentazione oggettiva, né tantomeno la capacità personale; quello che importa è solo la demonizzazione e la stigmatizzazione di chi la pensa altrimenti, perché alla base di questo meccanismo non è il rifiuto dell’idea non condivisa, ma la rabbia per il coraggio che l’altro ha nel manifestarla. Invidia e vigliaccheria: i due veleni mortali dei falliti.