Esistono saggi e documenti impeccabili sulla guerra e sulla pace, sia per il valore concettuale e la valenza simbolica, sia per il vissuto esistenziale del singolo e delle collettività nelle due apparentemente opposte situazioni.
Addirittura fotografie di soldati che, in talune date condivise, abbandonano le proprie posizioni avversarie e si incontrano per scambiarsi auguri, brindisi, sigarette e magari far pure quattro chiacchiere e mostrarsi reciprocamente le fotografie dei propri familiari.
Esisteva, almeno sotto certi aspetti, una certa forma di cavalleria che non escludeva la ferocia nel momento del contatto armato – anche condotta con modalità per certi versi quasi spietate e disumane – ma, alla fine delle ostilità, la pace ridefiniva territori, potenze e nuove prospettive di un futuro eventualmente diviso. I nemici potevano poi addirittura di diventare alleati o cooperanti.
Di questa fondamentale visione, Carl Schmitt rimane il pensatore per eccellenza nel campo della scienza politica. È lui che magistralmente scrive come “Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico”.
Diversa è la situazione quando il nemico viene personalizzato all’interno di una guerra civile, quando le ostilità derivano da un tradimento o da una resa incondizionata, quando per il vincitore il nemico diventa – usando le parole del grande giurista – un “tipo penal-criminalistico” nella sua riduzione a “delinquente”.
Rispetto all’ottimistico Henry de Montherlant, che nella guerra civile vedeva quasi la sobria scelta di uccidere i conoscenti per i motivi personali piuttosto che degli estranei per principio innocenti, Tucidide è stato molto più realistico già 2.400 anni fa, circa nel disegnare l’atmosfera politica nelle guerre civili elleniche, come il “carattere inaudito delle vendette”, la prevalenza degli “interessi privati in violazione di ogni ordine”, la consuetudine ad “esercitare la vendetta sull’avversario indifeso”, il fatto che “per cupidigia e ambizione si compirono le vendette più atroci e si osarono le azioni peggiori”, che “erano gli spiriti mediocri ad imporsi poiché animati da giusto timore per i limiti loro e le doti intellettuali degli avversari” (Le guerre del Peloponneso, Mondadori, Milano 2007, vol. I, 82-3, pp. 437-41).
Almeno queste precisazioni devono essere tenute a mente quando ci si pongono delle domande, magari mettendosi in una specie di frustrato, desiderio di essere ascoltati, se non addirittura compresi, mentre chi sparava alle spalle, chi si aggirava camuffato, chi tramava nell’ombra pretende di avere la verità assoluta, quantomeno nel caso italiano.
Perché non si accetta un confronto, ad esempio, tra le condizioni dei confinati antifascisti durante il feroce regime, e le confortevoli villeggiature riportate da Sinjavskij, Yuri Daniel, Bukovskij e gli ospedali psichiatrici, o Šalomov che ne “I racconti della Kolima” riferisce con una certa soddisfazione che “Oggi, per fortuna, non si lavora. La temperatura è inferiore ai 55°, e lo sputo ghiaccia nell’aria”? Perché nessuno approfondisce, diffonde e comunica le cause degli 80-100 milioni di morti tra uccisioni, fame e malattie durante il periodo sovietico? Perché nessuno approfondisce, diffonde e comunica le decine di milioni di morti del periodo maoista? Perché nessuno chiede conto delle libertà soppresse in tutti i regimi a direzione comunista?
Non affaticatevi troppo a pensare. La risposta è semplice: chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.
Tornando all’Italia, a causa delle innumerevoli code di paglia, dei cadaveri negli armadi, dei sentimenti repressi sì, ma sempre ribollenti – perché la psiche nasconde, ma non resetta né mente –, delle varie sfumature comportamentali che hanno infiltrato i referenti della Repubblica, dal tradimento e la diserzione, dalla codardia al semplici opportunismo, il potere ha dovuto creare una barriera fumogena fatta di falsificazioni, nascondimenti, negazionismo e vere e proprie manipolazioni linguistiche.
Nessuna meraviglia, perciò, per le lapidi frantumate, per le deiezioni sulle tombe, per gli oltraggi alle memorie e gli eroismi mistificati. Il problema, piuttosto, è che, una volta preso atto che non c’è alcuna opportunità di incontro con i negatori della verità, si deve anche riconoscere che c’è un atteggiamento difensivo, remissivo e poco risoluto nel rivelare quella verità che viene negata e nell’impedire la diffusione della menzogna.