Ho sempre sostenuto in contesti personali e ufficiali – ed ora lo confermo pubblicamente – la tua apprezzabile e corretta professionalità, in abito psichiatrico generale e forense in particolare.
La tua coerenza ideologica non aveva mai interferito con le valutazioni cliniche e terapeutiche, in molte circostanze rilevanti e condivise, e la scrupolosità clinica aveva sempre prevalso su eventuali impostazioni ideologiche.
Questa volta, però, pur comprendendo le necessità giornalistiche di concisione e, purtroppo, di impatto emotivo, ritengo che il tuo commento riportato dal quotidiano locale – “Contro il disagio giovanile fatte scelte sbagliate” – sia gravemente inquinato da una pregiudiziale politica, che di conseguenza oscura molto più complesse motivazioni e dinamiche che partono dall’infanzia e dall’educazione familiare per arrivare al fallimento scolastico e al degrado comunitario.
È pressoché impossibile chiarire in poche righe una realtà difficile e multiforme, l’unica cosa certa è che pensare all’intercettazione delle difficoltà dei giovani, ad irrealistici programmi preventivi, all’istruzione ai sentimenti e alle mediazioni culturali come delle modalità realistiche per affrontare la questione evidenziata, sia solo un’operazione retorica per nascondere un’impotenza insita strutturalmente in una certa mentalità bene inquadrata in termini politico-sociali. Forse, per partire da una certa base di concretezza, sarebbe meglio fare riferimento al buon Rampini o al sempre verde Trotskij, piuttosto che a qualche influencer o pseudoeducatori alla bontà. Con gli strumenti di prevenzione e di cura prescritti da questo sistema già alla deriva, il naufragio sociale è ormai scontato.
Per quanto riguarda, poi, alla responsabilità del degrado alla destra – a questa “destra” da me lontana anni luce – la manovra è documentatamente ingannevole e scadente, in considerazione che città gestite dalla sinistra come Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma o Napoli le situazioni sono molto più gravi e di difficile contenimento.
Detto ciò, caro Alessandro, per quanto riguarda l’usuale, ridondante e artificioso argomento dell’integrazione, forse sarebbe il caso di approfondire diversi autori, legati alla nostra specialità, che si sono interessati all’etno-psicoanalisi e all’etno-psichiatria – mi riferisco, ad esempio, a Tobie Natan, a Roberto Beneduce, a Salvatore Inglese, a quel George Devereux che definì l’esistenza dell’<<inconscio etnico>> dal quale scaturirebbero elementi ancestrali dalla terza generazione.
Dall’esperienza con Renato Curcio sulle istituzioni totali (Anno 1999, Il manifesto di Psiche) al dottorato di filosofia (Anno 2010, Oltre l’utopia basagliana), sono giunto alla denuncia di tre fondamentalismi che riguardano la nostra professione: la psicoanalisi, che pretende la prerogativa della cura attraverso la decifrazione dell’inconscio; l’approccio organicista, che nega l’importanza della psiche e invoca la superiorità della terapia farmacologica; il basaglianesimo, che nega sia la psicoterapia che la “camicia di forza farmacologica”, diluendo tutto in un umanesimo utopico e spesso nocivo.
La complessità dell’uomo è talmente eterogenea e articolata, dalle esperienze prenatali alla cultura della morte, passando per la storia individuale e collettiva, per la tradizione ancestrale e per il vissuto religioso –, che ogni riduzione e razionalizzazione di qualunque analisi, interpretazione ed eventuale approccio al disagio personale e sociale risulta semplicemente fallimentare.
Facciamo attenzione alla raccomandazione di un grande del ‘900, Ernst Jünger che annotò: <<Il venire a capo di un’epoca con i soli mezzi offerti da questa, si consuma nel girare a vuoto intorno ai suoi luoghi comuni: non può riuscire. È il motivo per cui si vedono fallire spiriti volitivi ma limitati>>.
Caro Alessandro, sono sempre a tua disposizione per un eventuale confronto pubblico, che sono sicuro sarebbe molto proficuo e divertente. In attesa di questa eventualità, ti confermo la mia stima e simpatia.
Adriano