Tra le figure della cosiddetta intellighenzia italica c’è ne una che spicca per un pericoloso patrimonio di istruzione – pericolosità relativa, in quanto accede e partecipa a confronti blindati e con un contraddittorio predefinito; istruzione e non cultura, essendo quest’ultima ben altro e ben di più rispetto alla più ampia dote di conoscenze e di competenze.

Questo personaggio è Tomaso Montanari il quale, aldilà del ruolo istituzionale di rettore e di storico dell’arte, ha una capacità dialettica ed un talento espositivo che può facilmente trarre in inganno, sui contenuti che esprime, menti non addestrate alle trappole linguistiche e alle insidie retoriche che distribuisce a piene mani in interviste e lezioni pubbliche.

Per chi ha pazienza, tempo da perdere o per esigenze lavorative, ascoltare le sue dissertazioni con particolare attenzione serve anche a scoprire le sue stesse contraddizioni, e quindi poter mettere in evidenza certi inganni logici come la cosiddetta cherry-picking, ovvero quel meccanismo più o meno spontaneo con il quale un individuo tende a ignorare tutte le prove che potrebbero confutare una propria tesi e, contemporaneamente, evidenziare tutte le prove a proprio favore. È questa la caratteristica di un ideologo, di un propagandista, di un imbonitore, non certo di un uomo di cultura.

In due circostanze diverse, Tomaso Montanari scivola clamorosamente in due considerazioni che meritano di essere puntualizzate.

La prima riguarda la critica ad una certa apologia dello stile spartano, che secondo Montanari sarebbe una prerogativa legata agli ambienti della destra estrema che prevede un uomo forte, virile e combattivo. In realtà, la concezione egualitaria, guerriera, statuale e comunitaria di Sparta, ha affascinato i rivoluzionari francesi come lo stesso Robespierre, ritrovando nelle virtù elleniche le basi fondative di un ordine sociale severo e giusto.

La seconda, ad essere sinceri, è meno teorica e molto più pratica e pericolosa.

Affronta il problema delle statue nude del Campidoglio che nel 2016 vennero ricoperte per accogliere un ministro iraniano, esattamente come capitò qualche mese prima a Firenze, a Palazzo Vecchio, allorché venne spostata la Giuditta di Donatello per non urtare la sensibilità di uno sceicco.

Naturalmente, l’amorevole rettore, trovò queste iniziative adeguate, giustificando il fatto che di fronte ad un “isterismo identitario” della destra, chi è turbato, o urtato, da simili scelte risulta essenzialmente un anti-umanista.

La narrazione cambia scena e, con un equilibrismo e un contorsionismo dialettico veramente ammirevoli, racconta di quando un suo amico, gestore di un importante ristorante toscano, tolse tutti i prosciutti appesi sul soffitto per non offendere la sensibilità di un personaggio ebreo che sarebbe venuto a cena. A proseguire, conferma la sua parzialità ritenendo inopportuna l’esposizione del crocifisso nei tribunali e nelle scuole – riferendo con soddisfazione la condanna subita dall’Italia da parte dell’Europa – per non offendere i non cristiani.

Quindi, questo intellettuale di punta del progressismo italico ritiene che – in nome di un’ipocrita apertura, accoglienza, disponibilità – sia civile e “umanistico” rispettare le identità e le sensibilità di un qualunque straniero retrocedendo sulle nostre, ritenendole parte di quell’isterismo identitario già riferito. Se poi, qualcuno, avesse da ridire su questo comportamento, ritenendolo una manifestazione di debolezza – qui il Montanari raggiunge l’apoteosi del suo pensiero disfattista –, bisogna tener presente che “dimostrarsi deboli è un fatto rivoluzionario”.

In cosa consiste questo fatto solo Montanari lo sa, visto che la storia e le scienze sociali parlano diversamente, bisognerebbe ricordargli che pensare di cavarsela facendo leva sulla debolezza di fronte a una sopraffazione, è come passeggiare nella savana pensando che al leone freghi qualcosa il fatto che il turista sia vegano.