Esistono vari parametri di giudizio per poter apprezzare il grado di organicità e la consistenza della forma di un uomo e del suo contesto di appartenenza. Il tutto, ovviamente, attraverso lo sguardo lucido e disingannato della tradizione. Uno di questi criteri si esplicita nel significato che viene attribuito all’idea di “tempo”, una scansione della vita che permette, di per sé, di distinguere nettamente il concetto transitorio di individuo e di società da quello permanente di persona e di comunità.
La dimensione dell’esistenza dell’uomo presuppone, per essere compresa, di tre parametri fondamentali: il passato, il presente ed il futuro, e tale valutazione è circolarmente legata al senso stesso dell’essere vivente e del suo teatro d’azione.
L’uomo della tradizione è direttamente collegato alla persona e alle norme ad essa correlate: il riconoscimento di un’autorità superiore e trascendente che guida ed indirizza l’agire del singolo e della sua comunità; il valore dell’intuizione quale esito possibile e finale di un percorso iniziatico; il senso del legame all’interno di un organismo vivente di comunanza; la tensione verso l’alto alla ricerca dell’idea e della verità; il riconoscimento di significato agli accadimenti personali e storici; l’identificazione nel valore di un ordine cosmogonico cui fare riferimento.
In questo caso, il senso del tempo assume delle valenze di altissimo profilo esistenziale e di pervasivo coinvolgimento vitale. Al passato si attribuisce il significato di memoria, di ricordo, di trasmissione di valori; un passato che è vivente in quanto mito e che, come mito, permea la vita in ogni sua espressione anche momentanea e fugace; un passato che è fondamento delle azioni del presente e base essenziale di rapporto e di confronto con ogni proiezione nel futuro. Il presente è scandito da un agire che segue l’armonia della natura e delle esigenze comunitarie; un presente che, razionalmente forse in maniera inconsapevole, ma ben compreso dalle vibrazioni dell’anima e dell’interiorità, è inserito in un pulsare di vita <<che si sviluppa in secoli e in millenni>>[1], e che è ritmato dall’andamento della natura e dalle leggi generali dell’universo. Il futuro è la proiezione di una visione del mondo e di un destino condiviso; è una forma che viene percepita nell’ordito di significato della storia, la quale ha un fine ed uno scopo non necessariamente razionalizzabili, ma certamente validi all’interno di un operare trascendente. Idealmente, l’azione del passato, del presente e del futuro si concretizza nel segno di Kairòs, del tempo debito, nel tempo dell’opportunità, nel tempo dell’armonia, in una condizione in cui <<il recente passato [che] conferisce al presente le condizioni per operare sull’immediato futuro>>[2].
L’individuo della modernità è ridotto alla più bassa condizione vegetativa, destituito di ogni valenza trascendente, illuso di controllare rapporti interpersonali e natura soltanto con mezzi meccanicistici. Convinto della prevalenza delle opinioni confutabili e confrontabili, confuso sull’assurda similitudine di <<opinione>> con “idea”, con la conseguente presunzione di poter parlare su tutto e di tutto soltanto su basi intellettualistiche, ha iniziato a manifestare l’esigenza convulsiva e disordinata di ricerca e di confronto. La conseguenza di questo processo di destrutturazione della personalità è stata quella di stravolgere il concetto di “verità” per ridurre la stessa a semplice verifica di risultato condiviso e di utilità pratica, negando un dato incontrovertibile, che: <<Una idea vera non può essere “nuova”, poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, ma essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla>>[3]. Un individuo disanimato, depsichizzato e omologato, stravolge nell’interpretazione e nel vissuto anche l’esistenza temporale.
Egli è un individuo che rischia di rimanere avvinghiato e annichilito nel passato; soltanto un reduce di imprese molto spesso immaginate più che vissute; un nostalgico, nel senso stretto dell’etimologia, nòstos come ritorno e algìa come dolore, <<un sofferente (per il desiderio) del ritorno>> auspicato e mai realizzato; un fantasma accusatore di rimorsi mai placati, di rimpianti mai più esaudibili: alla fin fine, uno sradicato senza biografia e senza storia. Se solidificato nel presente, nella gestione quotidiana del suo tempo, è soltanto un piccolo e grigio burocrate di quell’impresa unica e irripetibile che usualmente chiamiamo vita, un mediocre funzionario teso a gestire le minime preoccupazioni e le più modeste esigenze vegetative del suo percorso terreno; un essere agito da una continua smania di soddisfare desideri procurati e bisogni variamente indotti. Con questi presupposti, che possiamo definire psichici, anche il criterio del futuro cambia per un uomo che si trovi in tale condizione esistenziale: un futuro corroso da una speranza inesaudibile, da continue aspettative delegate al buon cuore degli altri, da richieste pressanti di sicurezza e di certezze esogene; un futuro che fonda la propria credibilità sulla progettazione e sulla previsione, in un gioco di variabili da tenere sotto controllo; un futuro che, sotto la spinta prometeica di un paranoico previsionismo, nega ogni limite e rifiuta il destino e, conseguente, dallo stesso destino è terrorizzato.
In questa assurda prevaricazione del divenire sull’essere, dell’immanente sul trascendente, dell’utilità sulla verità, della precarietà sulla certezza, è Cronos che diventa il simbolo del progresso inarrestabile e del fare inesauribile.
Con l’età moderna, con la negazione del passato come tradizione, del presente come testimonianza, del futuro come destino, del mito come potere reale, ha inizio per l’uomo e per la comunità il problema della malattia mentale in senso singolare e collettivo; questo rischio era ben noto nell’epoca classica e anche: <<I greci lo sapevano molto bene, per questo non conobbero una psicologia del profondo e una psicopatologia, contrariamente a noi>>[4].
La psicopatologia fino al Medioevo veniva in qualche modo integrata, anche se a volte solo marginalmente, nell’ambito della comunità. Qualche volta l’esclusione si attuava in termini precisi e mirati; altre volte si punivano i folli o si rinchiudevano in spazi riservati agli impuri, o si conducevano in lontani pellegrinaggi, ma: <<Il fatto è che questa circolazione di folli, il gesto che li scaccia, la loro partenza e il loro imbarco non possono venir spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini. Altri significati più vicini al rito erano certamente presenti […]>>[5]. E’ il rito, quindi, che stabilisce la normativa, un rito che diventa, citando sempre Foucault: <<[…] una separazione rigorosa che è esclusione sociale ma reintegrazione spirituale>>[6]. Rito e spiritualità: il primo stabilisce il cerimoniale di unione tra il terreno ed il mistico, la seconda offre un codice di lettura ai segni e ai sintomi di un disagio psicologico. In ogni caso, è una certa religiosità che permette uno specifico dispositivo d’ascolto e di compartecipazione affettiva e morale alle manifestazioni patologiche della psiche: quando il disagio emerge, pure con l’esasperazione teatrale della follia, significa che l’anima cerca, con mezzi e modalità peculiari ma uniche per quella personalità e quella circostanza, di esprimere la propria esperienza, di denunciare la condizione di ambiguità in cui si trova, di ritrovare un equilibrio interiore. In qualche modo: <<[…] la religione getta un velo protettivo sulla psicopatologia. […]. Meno religione c’è, maggiore e la quantità di psicopatologia che si riversa all’esterno e necessita di assistenza laica>>[7].
E’ dopo la rivoluzione francese, e la vittoria della Dea Ragione, che l’internamento e l’emarginazione assumono il carattere nobile della delega curativa medica. In questo caso il potere giudiziario e quello medico si associano per stabilire la quantità di pena e la quantità di trattamento: un binomio terribilmente pericoloso per la libertà del cittadino, ma particolarmente efficace per il controllo e l’inquadramento delle relazioni societarie.
Ormai alcuni secoli sono passati, riforme e controriforme hanno modificato lo statuto dell’esclusione e il paradigma della cura, ma la pericolosità di un certo intendere la norma e l’adattamento è geometricamente aumentata in potenza ed in efficacia. Lo stato moderno attuale, perduta l’auctoritas, caratteristica dell’organismo vitale comunitario, ha assunto pienamente su di sé la potestas, attributo dell’organizzazione meccanicistica societaria: mancando, o sentendosi menomato della forza interiore e della delega superiore a punire, tende sempre più a delegare la fedele esecuzione della normativa all’efficacia psichiatrica. Di fronte a fatti di cronaca nera, ad episodi di atrocità familiare e sociale, è davanti agli occhi di tutti la tendenza a deresponsabilizzare l’autore del fatto e a consegnarlo in mano a specialisti del comportamento e dell’educazione: <<C’è nella giustizia moderna e in coloro che la distribuiscono una vergogna a punire, che non sempre esclude lo zelo. Essa cresce di continuo, e sopra questa ferita, gli psicologi pullulano, insieme ai piccoli funzionari dell’ortopedia morale. […]. Per effetto di questo nuovo ritegno, tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori>>[8].
Da alcuni anni, però, si è innestato un rischio profetico nel già evidente marasma psichico: alla psichiatria si è fornita la delega di operare una manutenzione della normativa, in altre parole ciò che prima era punizione divina è diventata cura medica, ciò che ieri era trattamento clinico domani dovrà diventare regola interiorizzata. Attraverso dei percorsi ben precisi e complessi di degradazione dell’uomo-persona in individuo-massa e, da questo, ad un essere universale-omologato[9], ciò che era sintomo di disagio psichico e di malessere sociale è diventato un segno di malfunzionamento individuale e di imperfezione sociale: in altre parole, l’uomo-macchina dell’organizzazione societaria deve essere mantenuto nei parametri di funzionalità e di efficienza che possano conservare a regime l’apparato complessivo.
La documentazione dello slittamento della psichiatria da psiche-iatria come cura dell’anima, a cerebro-iatria come manipolazione del cervello, in associazione complice con la socio-iatria come gestione della società, è data dai titoli di alcuni articoli apparsi già diversi anni fa: “La pillola che ti cambia la testa” (L’Espresso, 04 marzo 1994), “La pillola del buon cittadino” (L’Espresso, 14 gennaio 1999), “Stress, io ti vincerò” (L’Espresso, 22 aprile 1999), “Il carattere in pillole. La scienza sta imparando a modificare emozioni e personalità” (Focus), “Una pillola e sfidi il mondo” (Panorama, 15 ottobre 1998), “Malati di gioco d’azzardo. Allo studio la terapia farmacologica” (Corriere medico, 18 marzo 1999), “Fobie sociali e depressione: è la modernità malata” (Il Piccolo, 12 ottobre 1998), “Lo stress cronico della vita moderna” (il Giornale, 27 settembre 1998).
L’indirizzo informativo, che è poi la descrizione del progetto totalizzante, è chiaro ed indiscutibile: il sistema è buono, come efficace è la sua programmazione e la gestione delle risorse umane; se poi, all’interno, ci sono singoli o gruppi che manifestano sofferenze e disagi, il problema è legato alla scadente capacità di tolleranza e di resistenza specifica. Di fronte all’emergere di problematiche ampie e gravi (tossicodipendenza, violenza giovanile, suicidi, fobie sociali, depressione, disgregazione delle famiglie, degenerazione dei rapporti interpersonali, psicopatologie lavorative, ecc.) il potere non ha la forza, oltre che la volontà e la capacità morale, di rimettere in discussione gli assetti proposti, allora meccanicizza l’intervento clinico per la ricerca di un equilibrio forzato anche, e soprattutto, con l’ausilio di sostanze esogene e di interventi normalizzatori.
Di fronte alla cosiddetta “crisi dei valori”, dovuta ad un sistema negatore della vitalità comunitaria ed assertore del funzionalismo societario, s’impone il controllo del disagio e la conseguente conferma del sistema stesso. E’ la ratifica quotidiana di quanto viene asserito da Hillman: <<Particolarmente insidioso tra tutti questi abusi della psicopatologia è l’uso che ne viene fatto attualmente per mascherare una certa filosofia morale. I concetti di salute mentale e di malattia mentale sono idee che riguardano la psiche, l’anima. Quando ci viene detto che cosa è sano, ci viene anche detto che cosa è giusto pensare e sentire. Quando ci viene detto che cosa è mentalmente malato, ci viene anche detto quali idee, quale comportamento e quali fantasie sono sbagliate. Con il concetto di salute mentale viene diffusa una ben precisa ideologia di placido umanismo borghese che, sotto il vigile controllo dei professionisti, pervade la comunità, i suoi tribunali, le sue cliniche, i suoi centri di assistenza sociale e le scuole. Ogni via di fuga è sbarrata dall’abuso professionale della patologizzazione. Rifiutare la filosofia della salute mentale conferma l’esistenza della propria “malattia”>>[10].
Partendo dall’assioma che <<la medicina è un’arte che si avvale di strumenti tecnici derivati dalla scienza, e che agisce in un mondo di valori>>[11], il rischio della psichiatria, che più di tutte le altre branche appare legata proprio all’indicatore di “valori”, è esattamente quello di diventare il braccio terapeutico di uno stato che ordina di riconfermarsi come valido anestetizzando quelle condizioni di per se stesse significative di “patologia”. Attraverso la negazione di ogni espressione dell’anima personale e comunitaria, la deformazione concettuale di psiche come espressione di cervello, il rifiuto di decodificare la simbologia del disagio, l’uso massivo di psicofarmaci dalla nascita alla morte, l’applicazione di tecniche di condizionamento e di “sopportazione” dello stress, la psichiatria scivola verso la deriva del controllo funzionalistico. Del resto, non sarebbe una novità: dal <<concetto coniato dai sovietici di “schizofrenia latente”>>”[12] per i dissidenti politici, ai tredici anni di manicomio americano per Ezra Pound, in tutte le latitudini e i regimi, la psichiatria ha manifestato spesso dei cedimenti in questo senso verso il potere costituito.
Il pericolo maggiore, però, si manifesta proprio in questo nostro contesto sociale, occidentale, omologato, globalizzato[13]: il lavoro sulle coscienze è in atto da anni, giocando su quanto, con grande efficacia, è stato puntualizzato da Dostoevskij, sul fatto cioè che la gente ama di più la sicurezza nella schiavitù del rischio nell’amore per la libertà.
Il lavoro di destrutturazione della persona è stato lungo e metodico, e perdura tuttora: dal soffocamento delle anime e delle tradizioni attraverso lo sfilacciamento della memoria storica, dall’abbassamento dell’uomo quale essere trascendente ad oggetto d’interesse naturalistico, dalla riduzione del pensiero creativo a risultato di nodi neurorecettoriali e neurotrasmettitoriali, dalla degradazione della simbologia psicopatologica all’oggettivazione del sintomo in categorie e in classificazioni, si è giunti a considerare l’uomo un marchingegno, la nascita una programmazione, il disagio un malfunzionamento, la terapia una manutenzione, la morte una rottamazione. Il passato e il futuro resi virtuali dall’incombenza del presente.
In questa deriva, è gioco forza che lo psichiatra rischi di diventare un funzionario cui spetti di oliare il singolo e l’organizzazione in vista di una maggiore efficienza del sistema.
Il “presente” del disagio diventa l’asse su cui s’impernia il conseguente intervento di normalizzazione. Il malessere viene catalogato attraverso l’uso di griglie e di manuali che definiscono in maniera artificiosa quella che deve essere la “realtà condivisa”; stabilito ciò, si cortocircuita la possibile domanda – “che cosa significa questa idea, questo malessere, questo comportamento?” – per giungere rapidamente alla scelta del mezzo per eliminarlo.
Il pragmatismo americano del “time is money” ha negato qualunque dispositivo d’ascolto e di comprensione: tutto deve essere ricondotto rapidamente ad una condizione precedente di pseudo benessere, evitando di porsi qualunque domanda su eventuali significati impliciti nella stessa manifestazione “patologica”. Il riduzionismo comportamentista trova la sua massima espressione proprio nella psichiatria organicista: la presentificazione del sintomo, avulso da un passato biografico e staccato da una finalità di cambiamento, diventa un segnale di danno che mette in forse la produttività del singolo. A questo punto, la iatromeccanica ha l’unica e determinante funzione di eliminazione del guasto e di ripristino della condizione precedente. D’altra parte, la socioiatria analizza i meccanismi alterati delle comunicazioni di gruppo e, attraverso degli approcci mirati al miglioramento della performance, ha il compito di re-indirizzare le risorse al massimo dell’efficacia accordata.
Quale futuro può delinearsi per una psichiatria che non ceda alle facilitazioni e alle seduzioni né di un approccio biologistico-fisicalistico[14] né di quello psicologista-socioiatrico.
Proponiamo un futuro utopico, come ū-tòpos, senza luogo, ed eretico, come hairetikòs, che ha scelto: una psichiatria sganciata dal potere normalizzatore che denunci l’etiologia e la patogenesi dei disagi invece che anestetizzare le manifestazioni degli stessi; che scelga in nome della comunità, della differenza, della singolarità, e che non si autolimiti nella forzatura della società, dell’omologazione e della massificazione; una psichiatria che sia presente dovunque si manifesti sofferenza per dare voce al disagio e concretezza simbolica alla sofferenza dell’anima; una psichiatria che scelga il rischio della scelta comunitaria contro coloro che la vogliono docile funzionario dell’organizzazione sanitaria e burocrate-clinico dell’ingegneria societaria; una psichiatria che faccia suo il motto: <<Né biologismo, né psicologismo: eversione>>[15].
Scelto l’uomo come essere unico, irripetibile e trascendente, lo psichiatra libero in una psichiatria del futuro deve prendere su di sé il rischio descritto da Hillman, quello di essere: <<[…] un terrorista intellettuale. […]. Aggredire idee radicate, rovesciare sistemi consolidati […] distruggere qualcosa, simulacri di idee che mi appaiono già morte>>[16]. Del resto, per concludere con una serie di indicazioni di Hillman[17], se rivendichiamo la terapia della psiche come un’arte la cui funzione deve essere l’indicazione di un percorso di consapevolezza, allora è chiaro che esiste un <<ruolo politico della terapia>>: un ruolo politico che rifiuta l’adattamento e che deve dare una valenza al sintomo come segnale che <<quello che il sistema offre è qualcosa che in realtà non voglio>>; detto ciò, diventa alienante e avvilente <<pensare di curare il singolo quando tutta la società è malata>>, per cui <<la terapia deve essere grandiosa>>.
[1] O. Spengler Il tramonto dell’occidente, Longanesi Milano, 1981, pg. 21.
[2] S. Natoli Télos, skopòs, éschaton. Tre figure della storicità, Feltrinelli, Milano, 1991, pp. 29-35 in U. Galimberti Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999, pg. 60.
[3]R. Guénon La crisi del mondo moderno, Mediterranee, Roma 1972, p. 85.
[4] K. Kerényi, J. Hillman Variazioni su Edipo, Raffaello Cortina, Milano 1992, p. 76.
[5] M. Foucault Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1984, p. 23.
[6] Ivi, p. 17.
[7] J. Hillman Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983, pp. 175-6.
[8]M. Foucault Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, pp. 12-3.
[9] Cfr. per l’argomento specifico, A. Segatori Psicofobia ed etnocidio in M. Bertali, F. Bertini, A. Segatori Il Manifesto di Psiche. Per una psichiatria ed una società senza psicofarmaci, Sensibili alle foglie, Roma 1999, pp. 225-300.
[10] J. Hillman J Re-visione della psicologia, cit., pp. 145-6.
[11] Cfr. G. Cosmacini Il mestiere di medico, Raffaello Cortina, Milano 2000.
[12] T. Szasz La battaglia per la salute, Spirali, Milano 2000, p. 85.
[13] A. Segatori Attacco mondialista e de-psichizzazione della comunità in Margini, Edizioni di Ar, Gennaio 2001, n°33
[14] Cfr. S. Moravia L’esistenza ferita, Feltrinelli, Milano, 1999.
[15] A. Segatori Dalla castrazione ideologica alla costrizione chimica: il DSM IV in M. Bertali, F. Bertini, A. Segatori Il Manifesto di psiche, cit., pp. 211-221.
[16] J. Hillman L’anima del mondo, Rizzoli, Milano, 1999, pp. 39-40.
[17] Cfr. J. Hillman, N. Ventura 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, Garzanti, Milano, 1993.