Nasce a Trieste l’11 aprile del 1953 e viene ucciso a Caia (Mozambico) il 19 maggio del 1987. Per ricordare il primo giornalista ucciso dalla fine della guerra, è stato istituito un premio nazionale in sua memoria. Non c’è pace neppure in questo secondo evento, perché l’Anpi e la CGIL contestano l’opportunità e addirittura la legittimità di questa iniziativa per questioni prettamente politiche.
Tra i diffusi rottami dell’antifascismo italico e non, c’è un tecnico informatico, tale Alessandra Richetti consigliere di 5S, evidentemente fornita non solo di conoscenze sulla resistenza alla frontiera alto-adriatica, ma anche di politica internazionale e specificamente di Africa meridionale, che spiega la sua opposizione al premio Grilz per la “presenza di questo giornalista nel gruppo della Renamo, sostenendone la causa e contribuendo a legittimarne l’azione sul piano internazionale”.
La risposta significativa è fornita dall’amico e collega Fausto Biloslavo, il quale fa notare giustamente che la guerra in Mozambico è finita da tempo, cosicché, “Renamo e Frelimo, cioè i due partiti armati che si opponevano in maniera sanguinosa, hanno fatto la pace. Ora, nonostante l’instabilità del Mozambico, uno è al potere, l’altro è ben rappresentato in Parlamento”.
Questo il punto più interessante della polemica antifascista, e che entra peno titolo nella continua, persistente, infiltrante campagna di disinformazione condotta da decenni dal potere democratico.
Il riassunto di questo clima è nella locuzione che Tito Livio attribuisce al capo dei Galli Senoni, Brenno, durante il sacco di Roma: Vae Victis, Guai ai vinti!
Facciamola finita con queste ipocrita comprensione e con questo buonismo d’accatto: la storia la scrivono i vincitori, e tutto ciò che viene dopo deve passare al vaglio di una censura che prima di tutto è mentale e morale, soltanto successivamente, e in estremo, di tipo politico e giuridico. Fintantoché i nostalgici della guerra civile continueranno a presiedere commissioni, istituti di ricerca, cattedre universitarie, premi letterari ed altri ameni apparati di manipolazione – finanziati dai governi, of course – ogni possibilità di dialogo risulterà preclusa.
Fintantoché ci saranno storici che per definizione riterranno la Resistenza improcessabile, gli altri studiosi non affidabili, le prove contrarie non attendibili, la mitologia partigiana un evento fondativo della Repubblica, la manipolazione linguistica un metodo di espressione, valida la squalifica dell’interlocutore e non la contestazione dei fatti, ogni rapporto dialettico sarà solo una trappola.
Fintantoché, nel calderone della Resistenza verranno accomunati Salvo D’Acquisto e Francesco Moranino, il colonnello Lanza di Montezemolo del Fronte Militare Clandestino e Luigi Longo delle Brigate Garibaldi, i partigiani della brigata Osoppo e i criminali dei Gap o del IX corpus di Tito, i combattenti per la libertà e quelli per la costituzione del comunismo, nessun intendimento né pacificazione saranno possibili.
È in questo clima di confusione culturale e di retorica resistenziale che germogliano e prosperano i devastatori delle lapidi, i defecatori delle tombe, i diffamatori della memoria, i marciatori con le bandiere degli infoibatori, i sostenitori che “uccidere un fascista non è un reato”.
Al famigerato Rosario Bentivegna, il terrorista di via Rasella, che nelle sue memorie scrive testualmente che “alla fine di ogni esame di coscienza e tentativo di revisione, mi trovo felice e appagato per essere stato dalla parte di Stalin piuttosto che dalla parte di Hitler” avendo combattuto per la libertà, bisognerebbe chiedergli conto degli 80-90 milioni di morti procurati dal regime sovietico, agli ungheresi, ai polacchi, ai rumeni e a tutti i popoli che dal comunismo hanno avuto terrore e miseria, non certo libertà e benessere.
Per concludere, Almerigo Grilz rimarrà un nome e un simbolo, a differenza dei cauti e untuosi servitori di questo sistema annaspante. Per dirla con le parole del grande dissidente Varlam Šalamov: Un marchiato sì, uno schiavo no.