Mi pare renda bene questa trascrizione onomatopeica del piagnisteo generalizzato che occupa l’informazione cartacea e televisiva.

Questa modalità di intervenire sui fatti, e di interpretare motivazioni e conseguenze degli stessi, si inserisce in due consolidate direttive sociali e politiche. La prima è radicata nella bulimica legislazione di uno Stato sempre più fatiscente e impotente; la seconda nell’incontinenza verbale che caratterizza la libertà di espressione dei più evanescenti contenuti concettuali.

L’esempio ultimo di questa evidenza è dato dalle pressanti e pervasive discussioni sul caso Ramy e lo schianto fatidico del vespone. Noiose elucubrazioni da legulei, o distorsioni sociologiste, o sofismi giustificazionisti, o altri fastidiosi contorsionismi concettuali.

Litri di inchiostro, risme di carta e salotti televisivi per disquisire sulla dinamica dell’inseguimento, sulla liceità del comportamento dei carabinieri, sui dispositivi a disposizione per impedire le fughe, sulle cariche di alleggerimento nelle manifestazioni e via via disquisendo, sproloquiando, piagnucolando e pontificando.

“Corruptissima re publica plurimae leges” ha scritto Tacito, e se è vera la sua considerazione secondo la quale più uno Stato è corrotto e più tende a moltiplicare le sue leggi, non c’è dubbio che la Repubblica italiana sia l’esempio storicamente concreto di questo andazzo.

Architettata da un tradimento e intrighi di Corte, concepita da complicità straniere e impostori casalinghi, battezzata da strateghi yankees e criminali nostrani, partorita da una guerra fratricida e da vendette personali. È bene ribadire, fino allo sfinimento, quello che il mafioso Lucky Luciano, capo dell’Anonima Omicidi di New York, disse al suo avvocato Moses durante la trattativa di liberazione per lo sbarco in Sicilia: “Avvocato, faccia presente ai suoi amici dell’intelligence che le prigioni siciliane sono piene di antifascisti, uomini d’onore, perché gli uomini d’onore sono per forza antifascisti. Se per caso gli alleati dovessero un giorno sbarcare in Sicilia, liberando questi prigionieri si farebbe un atto di giustizia. E poi potrebbero essere molto utili, questo glielo posso assicurare io. […] liberare i mafiosi detenuti nelle carceri italiane, considerandoli prigionieri politici, e impiegarli per assicurarsi il pieno controllo delle zone occupate”.

Una Repubblica con simili tare nella coerenza, nell’onore, nel coraggio e nella dignità, non ha la struttura morale e politica per giudicare, e neppure il coraggio per condannare. È costretta a sgattaiolare tra gli anfratti della reticenza e della retorica pietistica.

Massimo Carminati, al giudice che gli chiedeva del perché non si fosse rivalso su coloro che, sparando, lo avevano reso cieco ad un occhio seppure disarmato, disse che gli agenti della Digos non potevano sapere, e comunque avevano fatto il loro dovere, e lui avrebbe fatto lo stesso.

Responsabilità, serietà, correttezza: tre qualità assenti dalla nascita nel nostro sistema politico e giudiziario.