La modifica dell’articolo 609-bis del codice penale riguardante lo stupro, con la precisazione della indispensabilità del “consenso libero e attuale”, è una delle correzioni più pericolosamente ridicole che abbia partorito questo sistema catastrofico, moralmente e politicamente.
Ormai, il criterio per inquadrare in maniera precisa e indiscutibile una violenza sessuale ha superato ogni limite non solo legale, ma anche del buon senso e della normalità esistenziale.

Tanto per capirci, ricordo che in un incontro pubblico assieme ad Elisabetta Aldrovandi, avvocato, docente di criminologia e vittimologia, un noto giornalista che non cito se ne uscì con una affermazione non condivisa neanche delle donne del pubblico: “Per me è violenza anche un fischio non gradito”. Se poi ci aggiungiamo qualche isterica femminista che è arrivata a dire che anche uno sguardo può essere percepito come uno stupro, allora possiamo considerarci alla fine di ogni diritto giuridico e all’impotenza di ogni regola forense.
La giornalista Roberta Marchetti in un suo articolo aggiunge che “l’accusato che voglia difendersi dicendo che lei era consenziente (la linea difensiva più ricorrente) deve dire e provare cosa gli ha fatto credere che lei era consenziente. Si tratterà sempre di una valutazione complessiva”. Quanto mi divertirei come perito di parte dell’imputato a chiedergli: “Riferisca alla corte tutti i minimi particolari dai quali è derivata la sua convinzione che la donna fosse consenziente, non tralasciando nulla della reciproche interazioni”. Altroché youporn!
Il compenso viene ritenuto libero non solo in quanto non costretto da costrizione fisica, ricatto o da un non ben identificato abuso di potere, ma addirittura da un condizionamento psicologico. Quali siano i termini e le circostanze che determinano un intervento psicologico nella costrizione ad un rapporto sessuale, non è dato sapere. Così come non è dato sapere cosa si intenda per un consenso “non sottinteso”.
L’altra perla di questa distorsione giuridica è che il consenso “si può voler fermare in ogni momento”, anche senza dover in qualche modo giustificare il cambio dell’intenzione.

Infine, c’è una precisazione che aumenta di grande misura la pericolosità e la ridicolaggine di questa iniziativa giudiziaria: “per denunciare un abuso sessuale, la persona maggiorenne ha 12 mesi di tempo a partire dal momento in cui il reato è stato commesso per presentare la querela. Questo termine è più lungo rispetto ad altri reati per permettere alla vittima di superare lo shock e il trauma psicologico”.
Allora, portiamo la questione in termini popolari e di facile comprensione.
Due maggiorenni festeggiano la notte di Capodanno con le condivise e soddisfacenti prestazioni erotico-libidiche, dopodiché, il 30 dicembre dell’anno felicemente festeggiato, senza che nulla cadesse nel frattempo e senza alcun chiarimento del fatto avvenuto, la donna si presenta in questura per querelare il malcapitato, seppur breve ed accidentale partner.
Inizia così il calvario di un imputato al quale spetta l’onere della prova di innocenza, il tutto naturalmente a distanza di dodici mesi dall’evento a causa del quale una sedicente vittima sarebbe stata impegnata a risollevarsi dal trauma psichico procuratole.
Dal punto di vista medico-legale e psichiatrico forense, non sono segnalate refertazioni che comprovino lesioni fisiche né segni di costrizione; non esiste documentazione di una sindrome post-traumatica da stress confermata da alterazioni evidenti di tipo psicologico, sociale e/o relazionale; manca un indizio di una possibile sudditanza da parte della sedicente vittima nei confronti dell’imputato. Su quali basi la difesa determinerà il suo impianto a tutela del cliente incriminato?

Esisterà a questo punto, soltanto il peso indiscusso della parola della donna, che potrà sempre dire, basandosi su quanto scritto dalla giornalista citata, che l’uomo si è dimostrato superficiale nel “non conoscere e non considerare tutte quelle sfumature che le donne vivono nell’intimità, fatte di zone grigie e interpretazioni altrui. Il limite può essere davvero labile”.
Afferma la stessa Marchetti che “Una legge del genere, dunque, oltre a tutelare la vittima, anche qualcosa in più. Educa”.
Mi viene spontanea una battuta riferita all’uomo del tipo “Colpirne uno, per educarne cento”, ma come ha specificato perfettamente l’avvocato Annamaria Bernardini De Pace, questa normativa fa della donna una possibile arma ricattatoria, soprattutto se la controparte ha una buona consistenza economica; dall’altra, non mette in difficoltà soltanto l’uomo, ma è un vero e proprio attacco a delle normali relazioni tra adulti, trasformate in possibili trappole e in pericolosi imprevisti.
Si vogliono normare dei rapporti come tanti che possono essere altalenanti, discontinui, talvolta conflittuali, ma che rientrano nell’ambito dell’umana difficoltà relazionale.
Una cosa è perseguire, anche più che drasticamente, le violenze documentate e giustamente denunciate, altro è incriminare una persona in base a delle percezioni soggettive di un mancato – e fumoso – intuito sulle vaghe, elusive e personali intime sfumature femminili.
Bei tempi andati quando qualche donna particolarmente esuberante ti faceva l’occhiolino, o rispondeva ad un tuo ammiccamento, e non avevi bisogno di un consenso informato condiviso con allegati documenti psicologici sulla personalità e liberatorie medico-legali.