L’avvocato Giulia Bongiorno ha puntualizzato il suo metodo di lavoro, non semplicemente da condividere ma da assumere come condotta indispensabile prima di affrontare qualunque valutazione, nel suo caso legale. Una procedura, quella descritta, da applicarsi molto più banalmente, anche prima di esprimere idiozie e commenti insensati di vario genere sui social.
In riferimento ai fatti, “Bisogna leggere cinque volte le carte. La prima volta rapidamente, la seconda con l’attenzione, la terza sottolineando con evidenziatori di colori diversi, la quarta attaccando i post-it, la quinta volta si può dire di conoscerle se un attimo prima di leggere il rigo già lo si sa a memoria”.
A prescindere, perciò, dai quotidiani eventi di cronaca nei quali c’è sempre un aggressore e una vittima sui quali si scatena la tifoseria più disparata, con la scontata assoluzione a priori di quest’ultima, e sui quali fatti concreti, invece, sarebbe opportuno seguire la procedura indicata dall’avvocato Bongiorno, prendiamo atto di come nella realtà corrente, la “vittima” abbia assunto un ruolo, anzi uno statuto, quello di “nuovo eroe della società democratica contemporanea” come chiariscono con scrupolosa precisione giuridica e psicologica l’avvocato Daniel Soulez Larivière e la psicoanalista Caroline Eliacheff nel loro saggio datato ma attualissimo “Il tempo della vittime”.

Dagli anni ‘70 in poi “il femminismo ha svolto un’azione decisiva che ha provocato un cambio di orientamento nella vittimologia [per cui] la vittima era a priori innocente”. Questo ha determinato un cambio di paradigma non solo nell’ambito strettamente giudiziario o psicologico o forense, ma anche una pericolosa trascuratezza dal punto di vista sociologico e specificamente in quello dei diritti.
Nessuno mette in dubbio che ognuno di noi abbia la sacrosanta ragione di poter fare della sua vita ciò che più desidera nell’ambito della libertà individuale, ma questa retorica – dei diritti, appunto – ha, in concreto, prodotto due conseguenze: il deterioramento della mentalità di precauzione e la corrispettiva fine della responsabilità individuale.
La prima si è dimostrata e si dimostra particolarmente pericolosa soprattutto nel tempo attuale, dove lo scadimento della sicurezza individuale e sociale ha raggiunto livelli tali che qualche decennio fa sarebbero stati impensabili, invadendo gran parte delle periferie urbane e infiltrandosi nei più rispettabili centri abitati. Nessuna passiva accettazione né indolente rassegnazione, ma solo funesta constatazione.

La seconda ha determinato, con lo slittamento di responsabilità nell’evento in cui la persona è coinvolta, il passaggio da soggetto legittimo di ascolto e di supporto psicologico a rappresentare “l’onere dell’accusa [con] una notevole regressione simbolica”, mentre “le persone che hanno subito un danno, candidate allo statuto di vittime, sono le meno adatte ad accusare l’autore. […]. Nei processi attuali le vittime fanno pesare sui giudici una sorta di minaccia, molto più esplicita ancora delle minacce politiche un tempo esercitate sulle giurisdizioni d’eccezione”.
A questo proposito, c’è una letteratura specialistica che analizza la figura della vittima nella relazione dell’atto genericamente aggressivo. Escludendo i danni materiali e fisici a scapito di anziani, di disabili, di persone con difficoltà cognitive e con deficit in genere, qui si parla di soggetti capaci di intendere di volere e quindi psicologicamente e giuridicamente considerati responsabili delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Riassumere in poche parole, i rapporti che intercorrono tra criminale e vittima è un’impresa da ritenersi impossibile. Essi vanno dalla “precipitazione” quando la vittima si pone in una condizione di incoraggiamento, alla “facilitazione” per negligenza o superficialità, alla “provocazione inconscia”, allo “stile di vita”, alle personalità individuali, all’ambiente familiare di provenienza, alle carenze educative e via via elencando.
Analizzare gli aspetti della vittima è sempre un argomento scottante in un’aula di Tribunale soprattutto da parte dei rappresentanti della Parte Civile che giocano sull’equivoco interpretativo che quest’operazione valga come giustificazione del reo e colpevolizzazione della vittima stessa. Niente di più disturbante – e lo dico per esperienza professionale.
Deve essere chiaro che in qualunque relazione gli stimoli, le percezioni, le suggestioni, i fraintendimenti, gli equivoci, i malintesi e le conseguenti conflittualità vengono alimentati in reciprocità. Poi, c’è chi comprende, attenua e ridimensiona questi aspetti facenti parte di un qualunque rapporto umano, c’è chi invece per i motivi più svariati – psicopatia, uso di sostanze, assenza di emotività, scadenza nel controllo degli impulsi ecc. – li vive come incomprensione, come fallimento o come umiliazione, scatenando la reazione violenta e istintiva, sempre strettamente collegata all’insufficienza e alla fragilità di sé.
La vittima resta vittima, il reo resta reo, ma il responsabile maggiore dello scadimento del giudizio da parte di una giustizia che si definisca come tale nell’approfondimento più serio e più autorevole della verità è quel potere mediatico che gioca sull’emotività e sulla superficialità collegata per dirigere influenzare l’opinione pubblica e la giustizia stessa.

Ed è proprio sull’influenza esercitata sui fatti e sulle verità quell’opinione pubblica – dalle stragi ai femminicidi – che senza legittimità assolve e condanna con ineffabile superiorità, che Jacques Julliard riporta le parole di uno dei più grandi avvocati dell’altro secolo, Vincent Moro-Giafferi, il quale durante una arringa esclamò “Buttatela fuori dall’aula, quell’intrusa, quella puttana che tira il Giudice per la giacca!”.
Intrusa e puttana, ecco l’opinione pubblica.