Dovunque ci si guardi attorno, e qualunque contesto si tenti di analizzare, c’è sempre un’atmosfera di dissoluzione di ciò che può essere rimasto di umano, e con esso di comunitario. Umano e comunitario che sono esattamente l’opposto dell’umanitarismo accattone che ha ridotto ogni tipo di relazione di concreta solidarietà all’utopistico buonismo, e ogni forma di legame simbolico e ideale ad un aggregazionismo pratico e contingente.

Luigi Zoja, uno dei più grandi psicoanalisti junghiani, in un suo condensato saggio, datato ma sempre attuale, dal titolo “La morte del prossimo”, osserva con una acuta analisi come “Sia la Bibbia che i Vangeli sinottici non indicano un prossimo astratto, ma il tuo prossimo: quello che ti sta vicino, su cui puoi posare la mano. […] La vicinanza è sempre stata fondamentale”.

Questa è la cifra sulla quale si fonda la bontà e sentimento comunitario, tutto il resto è solo pietismo e troppo spesso una scaltra esibizione narcisistica.

Le manifestazioni per Gaza, ad esempio, anche quelle esenti dalle criminali applicazionidella guerriglia urbana, si sono dimostrate – e sono – ostentazioni piagnucolose e sentimentalismo scenografico.

Del resto, è molto più facile e narcisisticamente gratificante partecipare agli spettacoli pubblici forniti di visibilità e di applausi, piuttosto che praticare nell’ombra l’assistenza al vicino di pianerottolo o all’ignoto diseredato dal darwinismo sociale.

Il motto “Prima gli italiani” è stato demonizzato dalla sinistra in nome del cosmopolitismo e dell’accoglienza indiscriminata. Contro l’ideologia dell’identità, della patria, dei confini e delle sovranità nazionali è stata opposta la retorica disfattista del meticciato, del globalismo, del nomadismo e della subordinazione.

Poi, in un corto circuito concettuale, gli stessi detrattori di ogni forma di interesse nazionale vissuto e spacciato come egoismo, quando non di razzismo, diventano i difensori strenui e accaniti del popolo palestinese, il quale giustamente combatte per la propria identità, per la propria sovranità, per i propri confini e per il riconoscimento di un proprio Stato.

Mentre gli italiani sono sempre più alle prese con le difficoltà quotidiane, sia dal punto di vista meramente economico che da quello della sicurezza cittadina, i cosmopoliti della bontà si preoccupano delle tragedie a distanza, si stracciano le vesti per l’astrazione della sofferenza umana. Loro si sentono estranei, quando non nemici, al contesto di appartenenza, e per sopperire a questo sentimento di mancanza, cercano un finto ideale al quale dedicarsi, ma sempre con la dovuta e terapeutica distanza.

E mentre la distanza è proprio l’elemento pervasivo della nostra società, che si impone quotidianamente nei rapporti interpersonali, in quelli lavorativi, addirittura in quelli familiari, questo viene riempito da vicinanze virtuali, prive di concretezza e di fattiva collaborazione.

Parlando del desiderio e della solidarietà, come concetti nobili derivanti addirittura dal Rinascimento, Luigi Zoja fa un breve appunto sulla questione della solidarietà e scrive come questa “può rispondere a qualche misurazione oggettiva e […] appoggia i limiti personali spalla contro spalla”: questa è la discriminante tra coloro che con silenziosa concretezza si impegnano all’aiuto del prossimo, magari con qualche rinuncia personale, e quelli che, in determinate occasioni e spesso per motivi proprio non trasparenti, si agitano senza rischi e sacrifici a tutela di discutibili e comunque non influenzabili diritti altrui.

La società dello spettacolo denunciata da Guy Debord ha vinto su tutti i fronti, e “la vedette, la rappresentazione spettacolare dell’uomo vivente, concentra dunque questa banalità. […] è la specializzazione del vissuto apparente, l’oggetto dell’identificazione alla vita apparente senza profondità”.

Sono finte le motivazioni dell’impegno, sono artificiali gli obiettivi delle agitazioni, sono fasulle le dichiarazioni dei protagonisti, sono innaturali le esibizioni di sofferenza, sono manipolati i risultati delle proteste. Sottolinea Debord che “Quando l’ideologia, che la volontà astratta dell’universale e la sua illusione, si trova legittimata dall’astrazione universale e dalla dittatura effettiva dell’illusione nella sua età moderna, essa non è più la lotta volontaristica del parcellare, ma il suo trionfo”.

Proprio le ultime esibizioni fatte passare sotto l’acronimo di Pro-Pal hanno dimostrato la perfidia e l’ipocrisia che si nasconde e si traveste nella commedia del bene. In questo senso, c’è anche la conferma di quella che Hannah Arendt criticava come la “politica della pietà”, e nel caso in questione la giustizia sociale da difendere concretamente per la comunità di appartenenza è stata trasferita d’ufficio in una mobilitazione compassionevole per le altrui disgrazie, che non saranno sicuramente cancellate da patetici balli in maschera o teatrali rappresentazioni, ma sono servite e serviranno a riconfermare il fatuo e perbenista “potere dei più buoni”, come canta Giorgio Gaber.