“Perché punire è necessario”: questo è il titolo, a mio avviso fuorviante – della serie, un colpo al cerchio e un colpo alla botte, tanto per capirci – di un importante giurista tedesco, deceduto poco più di una decina d’anni fa, Winfried Hassemer, il quale ha ricoperto molti incarichi di prestigio – vicepresidente emerito della Corte costituzionale tedesca, nonché professore emerito di Teoria Sociologia del diritto, Diritto penale e Diritto processuale penale all’Università di Francoforte.

Durante lo studio di questo saggio in un tempo lontano, il giudizio è stato in certi casi ambivalente: alla precisione giuridica sui concetti di “punizione”, di “espiazione”, di “colpevolezza”, di “vittima” e di altri aspetti del reato e della pena, venivano associate, a mio avviso, considerazioni che si possono definire genericamente tolleranti, nel senso di una maggiore direzione e considerazione su aspetti di tipo sociologico rispetto a quello che si può qualificare come rigore giuridico.

Un esempio: “Le scienze umane ed empiriche” – scriveva il giurista – “hanno dato vita all’eterna disputa sulla libertà del volere. Tali discipline sostengono che non siamo padroni delle nostre decisioni”. Che la neuropsicologia si sia messa di traverso anche in ambito giudiziario su quanto di capacità di intendere di volere, nel momento in cui viene documentato che l’azione precede di pochi secondi il giudizio e la capacità di scelta, è una questione in via di dibattito, ma accettare questo appiglio l’ho trovato e lo trovo particolarmente pericoloso per una sua sfumatura giustificazionista.

L’uomo non possiede l’istinto, ma è caratterizzato dalle pulsioni, e se diamo uno spazio interpretativo a questa variabile, paradossalmente possiamo dire che non esistono colpevoli, ma tutti vittime delle proprie mancanze di controllo. La qualcosa, mi sembra evidente, mette in discussione lo stesso impianto normativo del vivere civile.

Questo il mio dubbio è stato peraltro risolto in un passaggio, quando l’Autore riconosce che, pur nella necessità del diritto di individuare una pena, questo diritto deve riconoscere dei limiti in quanto essi “servono alle persone colpite dagli effetti del diritto penale, offrendo loro presidio e tutela”. Che si può tradurre in questi termini: dato che ogni condanna comporta nei confronti della società un disvalore del condannato, bisogna fare in modo che questo disvalore non vada a pesare sull’inserimento sociale dello stesso. Qui nessuno rivendica l’utilità della gogna o della famosa “lettera scarlatta” da far indossare a chi delinque, ma è altresì ragionevole pensare che è chi compie un’azione che infrange la norma del vivere civile che si pone al di fuori della società, assumendosi le conseguenze che la stessa pone in atto.

Ultimo punto per un chiarimento sulla critica della condizione attuale, è quello della socializzazione. Hassemer riconosce che nel suo paese, all’inizio di questo millennio, oltre il 70% dei detenuti non erano intenzionati ad alcun percorso riabilitativo e continuavano a recidivare nei comportamenti. Questa fase è particolarmente messa in discussione nell’ambito della criminalità giovanile, che prevede il “principio educativo [per] promuovere il processo di maturazione del minore. Oggi, però, in molti di noi questa fiducia non è più data per scontata, in particolare alla luce dei fatti di cronaca che hanno per oggetto le molteplici ripetute violazioni da parte di ‘delinquenti intensivi’ minorenni”.

Per un lavoro di studio e di esperienza di circa vent’anni fa, credo che queste parole del giurista possano perfettamente sovrapporsi in un’analisi della condizione attuale.

Allora le domande sono variamente intersecate: “quanto pesa in questa situazione un certo sfilacciamento dell’azione giudiziaria?”; “quanto pesa una generalizzata rassegnazione e insufficienza da parte delle forze politiche che dovrebbero essere i soggetti responsabili del rispetto dei principi della società e del messaggio di tutela della sicurezza della stessa?”

La cronaca di ogni giorno ci pone davanti a fatti e a comportamenti che solo con un eufemismo forzato si può assumere con il termine di paradossali.

C’è la pregiudicata che viene eletta a pieni voti e che esterna il suo appoggio ai trafficanti di esseri umani, stravolgendo totalmente la verità sui fatti criminali che sottendono la cosiddetta immigrazione.

C’è la sorella del tossico spacciatore, anch’essa parlamentare, di cui la stessa non si è mai interessata – a detta delle cronache all’epoca della morte del fratello – alla sorte del medesimo, che poi assurge a paladina delle minoranze emarginate e dei detenuti.

C’è una piazza, a Genova, dedicata ad un morto durante l’assalto ad una camionetta dei carabinieri, e “in quel luogo di memoria e di commemorazione, ogni anno si tengono “celebrazioni in suo onore”.

Si organizza una serata a ricordo di un fuggitivo all’alt dei carabinieri mentre era con un compare in possesso di denari e oggetti verosimilmente frutto di qualche operazione illecita. Il padre del ragazzo morto si scandalizza per la decisione del consiglio comunale di Milano di conferire l’Ambrogino d’Oro ai carabinieri responsabili dell’inseguimento.

Si potrebbe continuare a lungo nell’elencare paradossali comportamenti dai quali si evince un’assenza completa di vergogna e anche solo di imbarazzo.

Siamo nell’epoca in cui trionfa la cultura della responsabilità debole, e i valori di dignità e di onore hanno perduto ogni carattere imperativo. È venuta meno la stessa corrispondenza tra un comportamento e la sua motivazione, perché ogni azione è semplicemente derubricata ad innocente spontaneità o a incolpevole impulsività.

Dal punto di vista degli studi giuridici, approvo sinceramente molte delle considerazioni di Hassemer, ma dal punto di vista psicologico e della filosofia del diritto le ritengo contemporaneamente anche pericolose, perché “Un sistema giuridico efficace deve possedere qualche nozione di libero arbitrio e di responsabilità individuale. Senza questi concetti è difficili individuare una motivazione consapevole e quindi attribuire una colpa e una responsabilità” (Furedi).

Questa opzione si è perduta da tempo. Una volta un fallimento economico, la scoperta di una truffa, una menzogna finita a conoscenza pubblica, la mancanza di una parola data ecc. potevano essere motivo di un gesto estremo. Ora scatta un meccanismo di pubblica rimozione: “Tanto dopo un poco, nessuno si ricorderà più del fatto”. E così, bancarottieri, imbroglioni, bugiardi, impostori perseguono imperterriti le proprie carriere commerciali, politiche, giudiziarie e giornalistiche.

Il problema, perciò, non è giuridico, ma è prettamente psicologico. Clinicamente parlando, non c’è un’interiorizzazione di responsabilità o almeno di una mancanza, ma l’esteriorizzazione di una colpa variamente distribuita e focalizzata.

Per quanto riguarda i giovani, è proprio questa mancanza a carico genitoriale che molto spesso produce devianze e recidive varie. Ma questa è un’altra storia.