Questa antica saggezza latina, che è poi uno stile di vita e di pensiero, si è persa nella modernità del vittimismo e del piagnisteo.

Sopporta le avversità della vita, dice il comandamento eroico della romanità; sopportale anche se tu non ne sei responsabile, ma sei comunque responsabile del modo con cui le affronti. E astieniti dal rompere i coglioni al prossimo con le tue lagne, dico io con il frasario nazionalpopolare della postmodernità.

È invece no. 

Oggi, dalle trasmissioni televisive alla carta stampata, dalle impostazioni psicosociologiche alle indicazioni educative, per non parlare della mentalità e della conseguente prassi giudiziaria, tutto è impostato sulla ricerca del trauma, sulla comprensione dei comportamenti, sulla giustificazione degli stessi.

Turbamenti transgenerazionali si sono metastatizzati in ogni età e a livello trasversale corrodendo la volontà individuale e depotenziando lo spirito combattivo dei popoli occidentali.

Il colpo di genio del cristianesimo – per dirla alla Nietzsche – non è stato solo innestare nell’uomo la speranza dell’immortalità, ma altri due concetti per certi versi molto più deleteri: la compassione e il perdono, associati al malefico dispositivo del pentimento.

In qualunque azione dell’uomo questo processo è sempre attivato con solerzia e, spesso, con obiettivi poco nobili e sinceri.

Basta osservare il meccanismo messo in atto dall’assassino dei due agenti di Polizia a Trieste. In meno di ventiquattro ore l’omicida non ricorda perché traumatizzato, l’avvocato informa che sta leggendo la Bibbia, il fratello si pente per lui del gesto inconsulto, la madre chiede perdono. 

Molto, molto commovente.

Naturalmente, se uno a caso – come il sottoscritto – dicesse che individui del genere dovrebbero essere eliminati per una questione di igiene e di salute pubblica: apriti cielo!

Restiamo umani! Non rispondiamo all’odio con l’odio, travisando completamente le motivazioni sovra espresse. Lo Stato non deve vendicarsi. E noi dobbiamo comprendere, essere compassionevoli, aprire i cuori anche a coloro che ci sentono estranei.

Insomma, una babele parolaia per svicolare da un criterio ineludibile che distingue l’uomo dall’illico, per usare la terminologia gnostica: responsabilità. Responsabilità per chi è autore di un gesto; responsabilità per chi quel gesto deve punire.

Senso del rispetto di sé quando una contrarietà ci cade addosso ed è necessario affrontarla. Non voltarsi dando le spalle, né inginocchiarsi sfuggendo lo sguardo, ma in piedi assumendosi il diritto di essere un uomo integrale.