Mentre il popolo afghano sta passando giornate di tragedia in mano a bande di tagliagole, l’Occidente genericamente inteso esprime il proprio rammarico per la situazione in atto, si appella al buon cuore dei talebani, al sentimento di umanità dell’uomo, all’indulgenza nei confronti delle donne e delle bambine.
L’esempio di questa resa incondizionata al male è incarnato in Gaetano Pedullà, opinionista – termine di per sè equivoco – che in un dibattito con Maurizio Gasparri arriva ad elogiare il comportamento squallido e irresponsabile di un Ministro degli Esteri – nome d’arte Di Maio – che di fronte al dramma che si sta svolgendo in Afghanistan si abbronza beatamente e si fa fotografare in atteggiamento da triglia, Mullus surmuletus corrispondente alla sua caratura caratteriale e al suo bagaglio intellettuale.
Pedullà parla di “cooperazione” nei confronti della situazione creata dal nuovo regime, un’espressione che la dice lunga sulla sua capacità di analisi e sulla sua conoscenza del problema.
Che l’operazione militare di esportazione democratica delle leggi e dei costumi occidentali si sia dimostrata un fallimento è davanti agli occhi di tutti. Che gli interessi reali siano stati ben diversi dalla retorica etica e civile sbandierata nelle dichiarazioni di principio è un dato assodato. Che gli attuali padroni del Paese asiatico siano il derivato diretto o sfuggente dei combattenti antisovietici addestrati e finanziati dagli americani è documentato da tempo.
Resta il fatto, attuale, che la fuga delle forze armate straniere ha permesso lo scatenamento delle bande criminali islamiste, così come è accaduto con i khmer rossi che si dedicarono alla paziente e radicale purificazione della Cambogia del morbo occidentale.
Rammarico, indignazione, amarezza, riprovazione: cantilene degli impotenti e degli esauriti, mentre la furia dei credenti in un Dio e in un destino non si preoccupa della vita, né propria né di quella altrui.
“Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, si chiede il generale Fabio Mini in un breve e significativo saggio. “L’8 settembre del 1943 è il simbolo di una delle tragedie più gravi della storia nazionale. È il giorno dell’ipocrisia per antonomasia […] si salva veramente poco se si perdono l’onore, la dignità, il rispetto e la stima degli altri”.
Il disonore e la viltà si sono dimostrate nuovamente nella fuga dall’Afghanistan, abbandonando alleati e collaboratori alla vendetta del nemico.
Guerre umanitarie – un vergognoso ossimoro – iniziate con le menzogne e concluse con l’infamia.
Le guerre si fanno per vincerle, e per vincere è fondamentale essere disposti a morire e a uccidere: due condizioni che i talebani applicano, mentre l’Occidente dei gessetti, delle barchette e dei flash-mob è disposto alla servitù pur di sopravvivere.
C’è già un movimento di resistenza femminile in Afghanistan che rischiano la vita per il diritto alla dignità. Da noi, il fronte omosessuale e femminista è scomparso dalla circolazione: le varie Boldrini, Jebral, Cirinnà, Bonino ed altre mefistofeliche figuranti non si inginocchiano per le bambine bottino di guerra, ma aspettano di farlo solo per qualche criminale ucciso dalla polizia.
L’Occidente finirà con una lagna, non con uno schianto, tanto per parafrasare Ezra Pound.