C’è un miraggio, un’utopia tanto grottesca quanto pericolosa, che infiltra il giudizio e offusca il pensiero critico: l’insegnamento della legalità.
È l’idea distorta che basti la conoscenza razionale del bene affinché questo bene si esprima e si concretizzi in comportamenti ed azioni, come se il buono e il bello dipendessero dal ragionamento e non fossero, invece, espressioni dell’animo o, se vogliamo entrare nel campo psichico, dell’inconscio personale e collettivo.
Questa “superstizione terapeutica” è la stessa ideologia che sottende quel processo di analisi e di approccio agli individui finiti nelle maglie dell’islamismo, condividendone per anni stili di vita e visioni del mondo.
Il proponimento di costituire gruppi di ascolto e di cura, se non fosse pericoloso nella sua stessa ideazione – immaginiamo, poi, nella pratica –, sarebbe semplicemente ridicolo. Pensare di trattare assassini, tagliagole e violenti vari come se fossero alcolisti in trattamento o in generale ordinari dipendenti patologici è una forma velleitaria e inconcludente di trattare una ben più grave e pervasiva devianza.
Così come è velleitario proporre corsi di insegnamento della legalità a quei minorenni che pongono in essere azioni di attacco a disabili, anziani, coetanei indifesi, beni immobili della comunità o altre condotte illecite di vario genere e gravità.
Come intende l’antica filosofia, ci sono cose che sono imparabili ma non insegnabili. Il rispetto,
sia esso per il singolo, per l’ambiente e per la natura, il coraggio, il senso dell’onore, lo spirito di sacrificio ed altre prerogative morali vengono trasmesse attraverso l’esempio e l’applicazione dei princìpi da parte delle figure significative.
Si può credere che un islamista, infarcito di precetti teologici coincidenti con norme giuridiche, comprenda concetti quali “diritti delle donne”, “confronto dialettico”, “interpretazioni del testo sacro” attraverso la discussione di qualche diapositiva sulla mentalità occidentale o qualche incontro di gruppo con attori diversi dalla sua mentalità?
Si può credere che un ragazzo nato e vissuto all’interno di una logica mafiosa, o camorristica, o ‘dranghetista possa cambiare le sue modalità di porsi con le istituzioni sociali vicine alla sua quotidianità, o con lo Stato quale contenitore e prescrittore di altri moduli di convivenza?
La risposta è indiscutibilmente no.
Nel secondo caso no perché inserito in un ambiente che comunque, indipendentemente dalle buone intenzioni del soggetto, decostruirebbero qualunque alternativa che lo stesso anche solo pensasse di attivare, fino alla sua punizione, come è accaduto in molti casi noti alla cronaca.
Nel primo, invece, il condizionamento indotto non è solamente inquadrabile in una cornice di tipo politico-ideologica, ma l’esito di una conversione di tipo teologico, la riuscita di una vera e propria vocazione che trova nell’eliminazione del miscredente e nel suo stesso martirio, un compimento che va ben oltre al semplice risultato pratico di tipo militare per arrivare alla giustificazione metafisica delle sue azioni.
In entrambi i casi si entra in quel tunnel labirintico disfunzionale di esperienze approfonditamente studiato dalla criminologia.
Esperienze, per intenderci, che vanno dall’orrificazione personale, nel momento in cui il soggetto viene fatto assistere a eventi di violenze, all’addestramento iniziatico a quelle violenze, fino alla prestazione routinarie della brutalità assistita e praticata.
Quindi, una virulenza interiorizzata che diventa inaccessibile, inossidabile a qualsivoglia tipo di approccio razionale, moralistico e cognitivo-comportamentale.
La “violentizzazione” – dicono i sacri testi – “è un processo graduale per il quale alcune persone, durante lo sviluppo bio-psico-culturale, passano da uno status di individui socialmente accettati a persone violente e temute dalla società in cui vivono”. Una lenta, progressiva e pervasiva, sempre traumatica, assimilazione di atmosfere efferate e brutali che sono indirizzate alla disumanizzazione della vita ma, contemporaneamente, disumanizzano anche l’esecutore dell’azione cruenta.
Se per i soggetti giovani esiste un margine labile e sfumato di intervento, soprattutto se allontanati dall’ambiente criminogeno e criminogenetico portatore e custode di codici di comportamento illegali, per gli adulti – e soprattutto per gli aderenti alle organizzazioni criminali o jihadiste – non esiste psicoterapia che tenga. L’interiorizzazione della violenza, e la sua banalizzazione, non sono affrontabili con gli strumenti della psiche, né tanto meno con quelli della razionalità
L’approccio al problema non è compito intellettuale. Chi ha percezione di intendere, intenda.