Già non essendo superstizioso non credo alla democrazia, tanto meno comprendo i creduli dell’educazione democratica o di quella, fantomatica, democrazia familiare.
Educazione democratica e famiglia democratica sono due ossimori o, come direbbe Lenin, dove c’è educazione non può esserci democrazia, con identica accezione per la seconda istanza.
Educazione e famiglia marciano insieme se c’è un intendimento comune tra i due dispositivi, e gli agenti interessati comprendono l’importanza della loro condizione all’interno del medesimo contesto.
Le due diverse funzioni genitoriali devono essere preposte a due altre diverse funzioni educative: la madre, quale soggetto all’accudimento e alla conferma della presenza rassicurante; il padre, come rappresentante del limite, del divieto e, con essi, alla preparazione dei figli ad affrontare il mondo esterno e la realtà circostante.
Educazione è, al contempo, valorizzazione delle capacità e delle competenze dei giovani nonché addestramento alla disciplina, al rispetto delle regole, alla responsabilità di cittadini.
Il problema si pone nel momento in cui, nell’infantilizzazione generale della società, i genitori diventano degli adolescenti attempati in concorrenza con i figli adultizzati dalla rete e strumentalizzazione mediatica.
Il rapporto, allora, diventa simmetrico e non gerarchico, come necessariamente deve essere. Sottolinea con autorevolezza uno dei massimi psicoanalisti viventi erede di Jacques Lacan, Charles Melman: “L’uguaglianza in una relazione, sia essa di ordine amicale, sessuale, professionale, non può mai essere operante”, caso mai deve essere mutevole nel tempo a seconda delle circostanze del sistema. Certe disposizioni non possono essere definite con la volontà, ma rientrano necessariamente in un processo di interiorizzazione che deriva da una educazione precedente, ideologicamente assente.
Nell’anomia che disgrega e intossica la società c’entra a pieno titolo l’organismo familiare, trasformato in una (dis)organizzazione contrattuale priva di quel legame e sentimento di appartenenza che poi non può pretendere ascolto, educazione e rispetto. Lo stesso psicoanalista, analizzando il caso clinico di una giovane senza radici né riferimenti, tra genitori divorziati e precarietà lavorativa, nomade affettivamente ed emotivamente, conclude che “questa ragazza appare come una emanazione perfetta della nostra democrazia”.
Niente di nuovo, quindi, rispetto alla critica che educatori, sociologi, operatori della psiche – quelli, almeno, non ipnotizzati dal pensiero unico omologante – continuano a predicare contro una certa scuola, una certa famiglia, una certa trascuratezza educativa.
Che poi le cose non si vogliano vedere, è solo un’ulteriore deriva le cui conseguenze sono appena all’inizio della loro patologica emersione.