Zworikin – più di sessant’anni fa – quando costruì il primo tubo da ripresa elettronico che chiamò iconoscopio, non immaginava che un simile marchingegno sarebbe potuto diventare un giorno fonte di tanto accesi quanto sfibranti ed inutili dibattiti. La televisione – così fu chiamata la sua scoperta – ha sempre determinato un certo numero di polemiche, quasi costantemente legate a momenti trasgressivi dei suoi personaggi e dei suoi programmi concomitanti; controversie legate alla violazione della morale vigente e del buon senso comune.
Negli ultimi periodi, però, i contrasti e gli attriti si sono accentuati in maniera esponenziale, con l’aggiunta di figure nuove emerse dal cilindro magico del dispositivo comunicativo, come il garante per l’informazione. Le convulsioni dialettiche degli esperti, perciò, si sono ulteriormente esternate in mirabili esercizi di contorsionismo: dalle discussioni sull’eccesso di violenza ed il conseguente timore di ricadute imitative, a quelle legate all’abuso informativo e al rispetto della cosiddetta par condicio, fino a ventilati suggerimenti – e ovvio motivo di scandalo – di ripristinare la censura a tutela dei soggetti più esposti ad un possibile imbonimento.
La diffusa lamentosità degli ultimi anni riguarda alcuni interrogativi legati alla responsabilità del mezzo in questione: può la televisione essere uno strumento di cultura? Esistono degli effetti collaterali nella sua pluripresenza famigliare? I vari fenomeni imitativi – devianti e non – possono essere imputati al suo semplice e lineare intervento? Ci sono dei correttivi attuabili per porre rimedio ai denunciati e presupposti disastri?
Questi alcuni degli innumerevoli quesiti possibili e recriminazioni evidenziabili che cercheremo di affrontare.
Esiste una cultura televisiva?
Possiamo rispondere con un sì e no. Sì, se si accetta il termine cultura nell’accezione moderna e sociale della parola; no, nell’ambito più specifico della visione tradizionale e comunitaria. Commentando alcune puntualizzazioni di Philip Rieff – <<uno degli interpreti più acuti di Freud>> – Lasch specifica il pensiero: <<La cultura è un insieme di esigenze morali, di “interdetti incisi nel profondo, a caratteri superiori e degni di ogni fiducia”. Per questo gli Stati Uniti di oggi possono essere tranquillamente definiti una “società senza cultura”, una società in cui non esiste nulla di sacro, e nulla, di conseguenza, è proibito>>[i]. Cultura, quindi, quale dispositivo preposto all’educazione del cittadino, all’allevamento delle anime, alla formazione della comunità. Per mantenere la validità di questi paradigmi, il processo culturale – che è processo poiché dinamico ed ininterrotto – deve rispettare a sua volta una serie di precise cornici argomentative: l’approfondimento nell’esposizione, l’opportunità temporale dell’elaborazione, la disponibilità attiva del confronto. Evidentemente, questi punti di forza mancano al mezzo televisivo.
I programmi televisivi sono improntati – volutamente, e non solo per esigenze tecniche – alla più sfuggente superficialità; in questo modo – paradossalmente – più lo stimolo è superficiale ed immediato, più colpisce in maniera sottile i punti deboli del singolo video-ascoltatore. La debolezza di reazione, poi, è legata alla rapida successione di informazioni spesso molto diverse tra loro, con la disponibile e complice passività di chi assiste regressivamente all’inondazione visiva e parlata profusa dalla lontana emittente. Queste due condizioni sono facilitate dall’impossibilità obiettiva del minimo confronto e della minima verifica di ciò che è propinato spesso con sussiegosa certezza. Il riscontro agghiacciante di questo imbonimento, in una discussione tra adulti “istruiti” sulla veridicità o attendibilità di un certo fatto, è quando più di un interlocutore sentenzia con sublime idiozia: “Ma se l’hanno detto alla televisione!”, confondendo con clamorosa patologia una informazione umana con una verità divina.
Del resto, come si suol dire, “la televisione fa il suo”; il suo scopo è predeterminato dal potere politico – quindi tragicamente economico in questo mondo alla deriva mercantile – con la conseguenza di dover adattarsi (quindi abbassarsi) alle esigenze della massa per ottenerne i consensi ed i consumi, evitando accuratamente qualsiasi livello qualitativo implicito nell’indirizzo di elevare e di migliorare: <<Il livello è sceso perché le stazioni televisive, per mantenere la loro audience, dovevano produrre sempre più materia scadente e sensazionale. Il punto essenziale è che difficilmente la materia sensazionale è anche buona>>[ii]. Questo convulso appiattimento verso il basso <<per accaparrarsi i telespettatori e non […] per un fine educativo>>[iii] è il fine ultimo di un progetto di imbonimento mentale e di condizionamento sociale.
La televisione, quindi, non fa cultura ma addestra, desensibilizza, conforma, omologa: offre al popolo quello che il popolo desidera e, circolarmente, fa desiderare al popolo quello che essa vuole offrire.
La televisione è un mezzo d’aggregazione?
Forse lo era, nei tempi in cui un unico apparecchio in un unico bar diventava il punto di ritrovo e di discussione per tutto il paese. Oggi sicuramente no giacché da anni la maggior parte delle case ha un televisore per camera secondo le esigenze dei singoli componenti della famiglia in una totale dissonanza d’interessi. Nell’epoca attuale possiamo ben affermare che il mezzo televisivo è diventato un dispositivo d’attrazione di solitudini e di disintegrazione dei legami. Questo meccanismo disgregativo è presente anche di fronte a programmi di carattere politico, proprio per l’annullamento di quel dispositivo artistico – quindi creativo – che va sotto il nome di conversazione. Anche in considerazione del fatto palese che oramai il massimo dell’incontro di parola è dato dal chiacchiericcio e dalle frivolezze di bottega, dispositivo documentato dalle trasmissioni di striptease dell’anima che invadono gli schermi delle famiglie italiane.
La conversazione presuppone una trasmissione reciproca d’esperienze, l’incontro delle quali permette di interpretare l’epoca in corso e di offrire le opportunità di costruzione comune di un futuro condiviso. Il tempo dell’incontro, in questo caso, è contemporaneamente circolare e proiettivo, dove la memoria, la presenza e la speranza giocano da fattori di reciproco rinforzo in una comune – o almeno discutibile – visione del mondo. Il mezzo televisivo, improntato alla diffusione più rapida e attuale possibile delle notizie, e che ha come limitazione tecnica la scontata passività di uno dei due interlocutori, non manifesta questa necessità: <<La televisione vive nel presente; non ha rispetto per il passato e ha scarso interesse per il futuro>>[iv].
In fondo, la televisione rispecchia la consuetudine – ormai diventata regola – della corsa affannosa contro il tempo e verso il vuoto. Spazio e tempo si sono contratti diventando anoressici e asfittici, impedendo la possibilità d’incontro e di parola e falsificando l’idea stessa d’aggregazione. Da tempo, la modernità a creato spazi per ammucchiate – grandi magazzini, cinema multisale, discoteche da cinquemila posti, mense per fast food –, e le uniche possibilità di confronto diretto – lavoro e famiglia – sono state esautorate dall’efficientismo meccanico e dal mutismo generazionale.
Parlando della creatività nei vecchi luoghi di incontro descritti da Ray Oldenburg, Lasch puntualizza la necessità del cosiddetto posto terzo[v], luogo in cui attraverso la parola si esercitava l’arte delle critica e del confronto, paradigma essenziale di una democrazia partecipativa.
La televisione, perciò, possiamo dire che nega qualunque possibilità di aggregazione; anzi, proprio perché incentivante la chiusura in tante piccole solitudini, è uno dei fattori di maggior disgregazione della vita famigliare e comunitaria.
La televisione è uno strumento educativo?
Chiaramente sì, nella moderna accezione del termine, dove per educazione si intende la libera(?) espressione delle istanze individuali in una logica del “fare ciò che piace”, dell’“agire istintuale”, del “comportarsi come ci si sente”, dell’“abbandono alla creatività”. L’attuale orientamento (dis)educativo ha determinato una forbice irreparabile nell’indirizzo del cittadino: da un lato, un apparato scolastico improntato alla più vellutata infarinatura culturale e ad una più competitiva impostazione professionale; dall’altro, ogni forma di intervento formativo è stata coartata all’interno di esigenze psico-sociologiche. In altre parole, i diritti hanno soppiantato i doveri, le opinioni hanno sfrattato le idee, il vantaggio ha rinnegato il sacrificio, il pressapochismo ha inficiato l’approfondimento. Siamo nell’èra dell’“usa e getta” – dell’uomo come della materia – e in questa condizione prima di tutto mentale non c’è posto per l’educazione, ma solo per consigli pratici di sopravvivenza e di opinioni da condividere a scadenza.
Detto ciò, altrettanto chiaramente, la televisione non può fare educazione nell’accezione classica del termine. L’educazione presuppone lo sviluppo delle idee e il tempo della conversazione, il tutto alla continua ricerca di una verità ultima e trascendente. Niente idee, niente educazione. Definiamo, innanzitutto, con le parole chiare ed incisive di Marcello Veneziani che cos’è l’idea: <<Un principio ordinatore, una fonte di energia e di mobilitazione, una chiave di interpretazione della vita e dei rapporti sociali, una visione del mondo, un’organizzazione del sapere e del vivere; insomma una guida per orientarsi nella realtà e plasmarla>>[vi]. L’attuale indirizzo televisivo va nella direzione esattamente opposta, tanto è vero che l’azzeramento degli ideologi ha lasciato il posto agli opinionisti – opinions makers – pseudo intellettuali con la fregola del giovanilismo, giustificazionisti di mode e malati di neofilia. Nessuna configurazione del mondo né visione trascendente, bovina accettazione di modelli proposti ed inventati all’interno di una realtà astenica e disaggregata; l’orizzonte plasmato è quello subalterno alle esigenze vegetative del singolo che sono legittimate dalla loro stessa pressione sociale. Basti pensare al tanto discusso fenomeno delle “veline”. Tutti i giovani – per fortuna e per istinto – hanno sempre avuto il desiderio di diventare “qualcuno”, di emergere dalla massa circostante secondo le proprie capacità e le proprie vocazioni; ma questo diventare famosi implicava – necessariamente – l’idea dell’impegno, del sacrificio, della durata, del percorso. Ora, invece, il mezzo televisivo può permettere – potremmo dire esige – la massima popolarità nel più breve tempo possibile: <<Nel momento in cui l’attenzione del pubblico è la merce più rara, i media non hanno più tempo necessario per coltivare la fama: quello che sanno far crescere è la notorietà, una pianta che dà raccolti veloci e con rapidità viene consumata>>[vii]. Il “preparare alla vita”, compito precipuo dell’educazione, si è tramutato nel “consumare il quotidiano”, indirizzo divoratore del modernismo. E la televisione è complice – se non responsabile – di questo fallimento in quanto <<ladra di tempo, serva infedele>>[viii] – per usare le parole di John Condry.
La televisione è un dispositivo democratico?
Assolutamente sì, sotto tutti i punti di vista. Nella liquefazione della democrazia partecipativa e nell’apoteosi di quella rappresentativa, il mezzo televisivo rappresenta il grimaldello per raggiungere le coscienze già estenuate dell’utente-cittadino e piegarle al volere degli imbonitori dell’anima e dei giocolieri del pensiero. Gli scontati intellettuali dei palazzi governativi – avvezzi ai salotti antagonisti ma refrattari al castigo della dissidenza – si sono sempre preoccupati di una eventualità dietrologica: “Se Hitler o Mussolini avessero avuto la televisione, quanti danni ulteriori avrebbero potuto produrre?”. Nella loro ignobile piaggeria, e per non mettere in discussione i miliardari ingaggi e la lacrimazione di perseguitati, non hanno mai osato porsi un’altra domanda: “Rispetto alla diretta propaganda di Goebbels, quante devastazioni ha prodotto la pubblicità subliminale del mercato?”.
La televisione ha permesso – e permette – quella che Luciano Canfora ha definito la <<retorica della democrazia, richiamando quella che Platone già esecrava sotto l’espressione di teatrocrazia. Oggi si dovrebbe forse parlare di teatrinocrazia>>[ix]: Mai come in questi anni, lo strumento televisivo ha permesso – attraverso lifting, corsi di dizione, tecniche di sfilata, restauri di sartoria – che sbiaditi e vanesi personaggi politici (sotto il vestito, nulla!) diventassero divi e soubrette, rinnegando l’origine di guitti e di saltimbanchi: <<[…] la grandezza storica che prende corpo in una figura personale è divenuta poco credibile. Non è più l’uomo che domina un luogo, ma è il luogo che, insieme con la sua costellazione, conferisce all’uomo una potenza funzionale. L’uomo, anche laddove occupa una posizione assai elevata, anzi, soprattutto in questo caso, diventa del tutto accidentale, è, di fatto, sostituibile>>[x]. E proprio sulla presenza accidentale e sul rischio di sostituibilità che si gioca ampiamente il ruolo democratico della televisione.
La televisione non fa cultura, non fa aggregazione, non fa educazione perché deve vendere, imbonire, omologare. Dato che ogni programma viene giudicato nella sua pervasività e calcolato nella sua penetrazione in base all’indicatore quantitativo definito audience, chi è il masochista che in nome della qualità – sempre inversamente proporzionale al numero – è disposto a rinunciare ai sontuosi ingaggi per un’operazione di elevazione e di critica della coscienza collettiva? Per l’operazione di massificazione dei gusti, degli interessi, delle attrazioni, il mezzo televisivo è lo strumento più adatto alla riduzione qualitativa del pensiero individuale, l’elaborazione del quale deve portare ad indicatori generici, imprecisi, fluttuanti – nel giudizio critico –, ma mirati, definiti e inflessibili – nel condizionamento subliminale –. Come scrisse in un articolo Umberto Galimberti, l’uomo è stato degradato da sapiens a videns, con la conseguenza che le sue scelte sono determinate dalla stimolazione del cervello rettile con estromissione del minimo controllo corticale. L’esistenza che deve essere proposta per attirare l’attenzione del grande pubblico è quella puramente vegetativa e sensoriale, senza alcun interessamento al versante del senso, del significato, della motivazione. E non solo i programmi televisivi condizionano passivamente mentalità e stili di vita in nome di una continua comparazione con personaggi del cosiddetto jet-set, ma propongono attivamente illusorie vie di fuga verso mondi irreali e fatui orizzonti.
La televisione è il simbolo più fulgido della democrazia perché porta dovunque il suo messaggio fuorviante: “anche tu puoi essere così”. Grazie ad un linguaggio reso semplificato e appianato, esonerato da qualsiasi impegno di forma e di significato, il congegno televisivo non solo diventa il depositario dell’operazione uniformante – e abbassante – del pensiero, ma si fa lui stesso <<pensiero unico>>, quindi massima cifra di potere.
La televisione strumento di disinformazione.
La televisione, dunque, come dispositivo di mistificazione. Distorce il significato della cultura riducendola a informazione di massa e ad approssimativa conoscenza popolare: attraverso l’azzeramento di ogni valore passato e la contrazione di un orizzonte futuro, presentifica il suo messaggio in una attualità mercificata e consumante. Bauman riporta una chiarificante descrizione del paesaggio moderno di Cornelius Castoriadis: <<La società democratica è un’unica enorme istituzione pedagogica in cui ha luogo l’inarrestabile autodistruzione dei suoi cittadini. […] I muri delle città, i libri, gli spettacoli, gli eventi educano: oggi però per lo più diseducano i residenti. Paragonate le lezioni che i cittadini di Atene (donne e schiavi compresi) traevano dalla rappresentazione delle tragedie greche con il tipo di conoscenza che viene oggi consumato dallo spettatore di Dynasty o Perdue de vue>>[xi]. Un tempo c’era la cultura; oggi è stata sostituita dalle competenze funzionali di pochi e dall’imbonimento sedativo di molti. Inganna il sempre più diffuso sentimento di solitudine con una illusoria partecipazione ad avvenimenti mondiali resi spettacolari ed accattivanti. I cittadini, dispersi nel proprio privato frammentario, partecipano passivamente ad una vita virtuale che, quanto più è distante da quella reale del singolo, tanto più risulta essere una pericolosa ed alienante illusione. Travisa il significato della aggregazione trasformandola in momentaneo raggruppamento di molti intorno ad un evento estemporaneo, una superficiale contingenza di carattere spontaneistico e di informe motivazione (calcio, festival o girotondi sono accezioni diverse della stessa sostanza). La stessa politica, un tempo caratterizzata da specifici simboli unificanti (le bandiere), identificata in luoghi vissuti nel senso del ritrovo, della discussione, della condivisione (sedi di partito), espressa in momenti di uscita rumorosa e folkloristica spesso con antagonismi piazzaioli (comizi), ora è ridotta a diluiti meetings tra clubs, dove l’affarismo e la gestione speculatrice hanno sostituito il dibattito ideologico e la contesa dialettica. Negli stessi dibattiti televisivi il confronto di idee è pressoché – se non del tutto – inesistente o insignificante, sfociando in un povero rapporto conflittuale di tornaconti.
Falsifica il significato di educazione e corrompe l’indirizzo formativo dei cittadini, in questo senso avvallando – per correità – il degrado di certa democrazia denunciato da Castoriadis. Si è sbagliato clamorosamente Platone – tanto vale provocare – quando ritenne che la fine dell’eccesso democratico debba per forza essere la tirannide, quella forma di violenza totalitaria che si è presentata all’orizzonte del secolo passato con i genocidi documentati in orribili necrologi: c’è un abuso più impalpabile, subliminale, permanente, pervasivo, metastatizzante, anemizzante, comunque mortifero per l’anima personale e comunitaria, che è il nichilismo democratico. La televisione coltiva un terreno di uniformità e di omologazione, dove anche la trasgressione segue le regole della moda inventando le novità trasgressive; nel suo procedimento anestetizzante annulla la soglia di consapevolezza dell’inganno e prevede un innalzamento dell’illusione alla beatitudine; attraverso il dispositivo dell’inflazione pubblicitaria azzera le facoltà di riconoscimento della verità e favorisce le capacità di assorbimento della merce culturale: <<la conoscenza avviene attraverso la rappresentazione di un mondo virtuale operata dei media che in qualche modo, e di certo molto parzialmente, rappresenta quello reale>>[xii].
La televisione, perciò, può essere considerata uno strumento di potere e di condizionamento delle anime; un contenitore ed un trasmettitore di valori – o di non-valori, di dis-valori – sfavorevoli a qualunque elevazione dello spirito, proprio in quanto <<la supremazia spirituale è un miraggio; il compito degli intellettuali consiste nel seguire il mondo esterno, non nello stabilire i criteri di adeguatezza, verità e buon gusto>>[xiii]. Gli operatori dello spettacolo e dell’informazione sono autoreferenziali ed autovalidanti, devono sottostare soltanto alle indicazione di piacevolezza popolare; e dove sta la soddisfazione vegetativa non c’è posto per la regola educativa e formativa. Il potere esistente ha paura dell’anticonformismo e del pensiero antagonista – non quello costruito ad hoc dal sistema per confermare la propria democraticità, e deve quindi far leva sul miraggio del mercato e della pubblicità. Preso atto della situazione, per finire con le parole di Marcello Veneziani: <<Oggi l’unica contestazione possibile davvero rivoluzionaria che può essere rivolta al nostro tempo e al mondo globalizzato è di tipo spirituale e ideale, non materiale o economica, in ordine al deserto delle idee e all’inaridimento dell’anima e delle menti>>[xiv].
[i] Cfr. C. Lasch Philip Rieff e la religione della cultura in La ribellione delle élite Feltrinelli, Milano 2001, pp. 173-185
[ii] K.R. Popper Una patente per fare tv in K.R. Popper, J. Condry Cattiva maestra televisione, Donzelli, Milano 1994, p. 14
[iii] K.R. Popper cit., p. 15
[iv] J. Condry Ladra di tempo, serva infedele in cit., p. 36
[v] C. Lasch cit., pg. 104 “[…] un ambiente in cui per ottenere il riconoscimento degli altri bisognava fare affidamento sulla forza di carattere, non sulle proprie realizzazioni e meno ancora sul conto in banca”.
[vi] Cfr. M. Veneziani La sconfitta delle idee, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 4
[vii] Z. Bauman La società individualizzata, il Mulino, Bologna 2002, p. 169
[viii] Cfr. J. Condry cit., pp. 27-50
[ix] M Veneziani cit., p. 39
[x] E. Jünger Lo stato mondiale, Guanda, Parma 1998, pp. 23-4
[xi] Le délabrement de l’Occident, intervista a Cornelius Castoriadis di Oliver Mongin, Joël Roman e Ramin Jahanbegloo, 1991 ; cfr. C. Castoriadis La montée de l’insignifiance Paris, Seuil 1996, p. 73. In Z. Bauman cit., p. 161
[xii] S. Acquaviva La democrazia impossibile, Marsilio, Venezia 2002, p. 85
[xiii] Z. Bauman cit., p. 171
[xiv] M. Veneziani cit., p. 31