Noi, banditi del pensiero e fuorilegge dell’omologazione, siamo degli esseri un po’ strani per l’intendere comune. Da un lato, rivendichiamo le radici, la memoria storica, l’ideale comunitario, il sentimento della razza, la fierezza del sangue mentre, dall’altro, comprendiamo il diverso sentire, il gesto dissacratore, l’azione deflagrante, il comportamento straordinario di chi non ci appartiene ed è lontano da noi anni luce.

Perché? Come mai? Quale sintonia riesce ad armonizzare tanto grandi dissomiglianze?

Forse più di un’assonanza fa vibrare delle corde interiori in simultaneità, ma una è essenziale: quella legata allo stile di chi non ha paura della morte, di chi è disposto a tutto per la propria idea, indipendentemente dal campo in cui milita e dalla religione che professa.

Per questo motivo detestiamo i paurosi, i normalizzatori del buon senso, i predicatori della pace ad ogni costo, i mercanti della dignità a basso prezzo, i meccanici della santità e dell’eroismo. Tutti questi fanno parte di una razza (mi stava scappando il termine genìa) a parte: quella categoria paludata dei benpensanti, o non-pensanti, dei genuflessi alla norma, degli ossequianti delle anime belle, degli esibizionisti dei buoni costumi: quelli che giudicano il diverso in termine di canaglia, sia esso singolo o stato, e che quando non comprendono un comportamento che fa scattare in loro la paura, sentono l’esigenza immediata di catalogarlo e di esorcizzarlo come patologico, se non riescono a bollarlo prima come immorale o selvaggio.

Questo preambolo per discutere tra noi, a bassa voce, di un articolo apparso sul numero 170 di Psicologia Contemporanea (marzo-aprile 2002) dal Titolo: “Kamikaze. Le basi biologiche dell’attacco suicida”.

L’impulso naturale era di passare immediatamente all’insulto, ma noi, banditi, conserviamo quel senso di cavalleria ben più elevato del conformismo comune, perciò abbiamo pensato di tentare un’opera di chiarimento, sapendo benissimo dell’inutilità del gesto per mancanza d’attenzione e di disponibilità da parte dell’anima dell’interlocutore.

Il contenuto dell’articolo parte dall’attacco alle Due Torri di New York dell’11 settembre scorso e si basa su alcuni presupposti precisi di chiaro stampo funzionalistico-meccanicista: sostanzialmente, le motivazioni inconsce degli attaccanti erano determinate da una devianza in senso distruttivo violento di un istinto innato di sopravvivenza parentale. Spieghiamoci meglio: secondo l’estensore del lavoro, esiste una pulsione alla difesa parentale per la quale i terroristi sono disposti ad uccidere e a morire pur di preservare biologicamente la propria specie razziale.

         Secondo una sorta di biologia del comportamento, esistono dei fattori innati che farebbero superare il semplice istinto di sopravvivenza individuale per espanderlo a quello parentale, una spinta al sacrificio del singolo in difesa di tutti coloro legati per sangue e per razza: <<[…] una sorta di ‘egoismo genetico’ del quale non siamo consapevoli […]>>.

Naturalmente, l’analisi della violenza è indirizzata, nell’articolo, ai terroristi musulmani di Al Qaeda, con relativa valutazione dei comportamenti spietati degli stessi: la de-umanizzazione del prossimo, la vendetta sul sangue versato dai compatrioti, la paura dell’estraneo, la sottomissione ad un leader, l’indottrinamento senza scrupoli.

Tutta questa gran disquisizione organicista, biologista, comportamentista ci fa un po’ sorridere, o ghignare. Però, per benevolenza, la comprendiamo e siamo disposti a metterla in discussione, il più civilmente possibile. Comprendiamo e abbiamo compassione di chi ha paura, di chi ha visto crollare con le Due Torri la propria sicurezza materialista e la propria arroganza tecnologica, di chi ha capito che non tutti possono essere comprati con il denaro e con gli idoli transitori di un benessere da mandria.

L’attacco suicida dell’11 settembre è stato terribile per l’impatto emotivo, ma noi, che odiamo <<il minio e la maschera del pensiero>>, per dirla con Emilio  Praga, vogliamo andare oltre alle veline propagandiste e alle parole ammaliatrici degli imbonitori mondialisti, noi vogliamo fare nostre le parole di Caraco: <<Il nostro dovere è profanare ciò che essi venerano, giacché senza la profanazione il mutamento non mette radici, e più tardiamo a cambiare e più incorriamo in sofferenze e martiri>>.

E allora si dia inizio all’iconoclastia.

Quale catena di aminoacidi ha fatto scatenare la furia inglese quando nel 1919 provarono le armi chimiche contro i bolscevichi della Russia del Nord? Quale collegamento ipotalamico infiammò l’entusiasmo di Churchill, sempre nel 1919, per l’opportunità di usare gas velenosi contro curdi e afgani ed eventualmente contro arabi indomiti? Quale alterazione neurotrasmettitoriale spinse la buona dirigenza Kennedy ad impiegare armi chimiche contro i civili del Vietnam del Sud negli anni ’61-’62, le conseguenze delle quali furono rilevate ancora nel 1988 con stime di duecentocinquantamila persone morenti per gli effetti ritardati e bambini curati per cancro o nati con malformazioni? Che pensare poi del cervello rettile dei governanti inglesi e americani tuttora impegnati contro l’Iraq: bombardamenti e blindatura contro possibili aiuti umanitari con valutazione da parte dell’UNICEF di quattromilacinquecento bambini morti al mese durante il 1996? Nell’inclusive fitness sono compresi anche i comportamenti israeliani, la metodica attività di deportazione, l’uso metodico della tortura, l’opera meticolosa di genocidio e di distruzione della popolazione palestinese, la stessa negazione della libertà di parola per tutti coloro che non portano la kippa? Da dove deriva la de-umanizzazione dell’avversario, inteso nel prigioniero incappucciato, legato, prostrato dall’uso di psicofarmaci e ingabbiato a Guantanamo?

Queste domande potrebbero proseguire, provocatoriamente, per interi volumi. La risposta, però, seppure nella complessità dell’argomento trattato, è relativamente semplice. Qui non si tratta di applicare riduttivismi comportamentisti né ammaliatrici ipotesi genetiche: il problema non è organico e neppure etologico.  Di fronte alla Storia, costellata da tutte le difficoltà, le paure, le sofferenze e le tragedie nel millenario corso dell’uomo, esistono solo due atteggiamenti: quello di coloro che la subiscono con bovina accettazione, passivi oggetti di manipolazione, di imbonimento, di rassegnazione, e quello invece di chi, come disse Dolores Ibarruri, <<preferisce morire in piedi che vivere in ginocchio>>.

L’11 settembre ha decretato la fine della sicurezza del pensiero unico: o quanto accaduto sarà stimolo di riflessione e di conseguente cambiamento di indirizzo, oppure non rimarrà che constatare, con disgrazie innominabili per tutti, l’avvento di quanto profetizzò la Buonanima alla dichiarazione della II Guerra Mondiale seppure in modo non convenzionale: “[…] è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra […]”.

Ogni altro argomentare è solo cronaca, scongiuri, tartuferia, anestesia mentale.