Da Electomagazine, 12 ottobre 2021

Devo tornare su un argomento già più volte toccato in precedenza, sempre contando sull’antica sentenza latina dall’origine incerta: repetita iuvant. E lo faccio dopo l’intervento di Roberto Pennisi, giudice della Direzione Nazionale Antimafia; intervento che ha sconcertato una certa Luciana Lamorgese che, si dice, sia Ministro dell’Interno, con evidentemente scarsi e paradossali risultati nella sua funzione.

Il magistrato in questione ha affermato che “la criminalità non va cercata solo nelle periferie e nei posti degradati, ma anche nelle Prefetture  e al Ministero dell’Ambiente.

Ora, a parte le precise indicazioni fornite, quello che mi interessa sottolineare è l’aspetto generale del fenomeno mafia, necessariamente in stringato riassunto.

La prima trattativa Stato-mafia risale al lontano 1942, quando Salvatore Lucania, in arte criminale Lucky Luciano, iniziò la collaborazione con il servizio segreto della marina americana attraverso il supporto della famosa FBI ed altre agenzie governative. Lucky Luciano, “un patriota”, disponibile a “contribuire allo sforzo bellico”: ovvero all’invasione dell’Italia, tanto per essere chiari.

Del resto, il patriottismo in lui – “pluriomicida con un curriculum criminale unico nella storia, il più pericoloso gangster americano” – è sempre stato molto esplicito: “Avvocato, faccia presente ai suoi amici dell’intelligence che le prigioni siciliane sono piene di antifascisti, uomini d’onore, perché gli uomini d’onore sono per forza antifascisti”. Una verità acclarata, accettata dagli stessi interlocutori americani: […] perché il Duce ha ingaggiato una lotta senza quartiere alle cosche”. Lo stesso avvocato Moses Polakoff, che per la difesa di Luciano “il patrocinio era arrivato ai 100 mila dollari”, dovette ammettere che “a giudicare dai risultati sei costretto a riconoscere che certi metodi non saranno accettabili in democrazia ma contro la mafia pare che funzionino”.

Con questa vergogna politico-giudiziaria si arriva allo sbarco in Sicilia, dopo accordi tra badogliani, assassini, servizi segreti e mafiosi.

A coordinare lo sbarco e il post-invasione c’è Charles Poletti e, come suo “assistente”, il famigerato Vito Genovese, collaboratore fidato di Lucky Luciano.

Per usare una metafora, se la mafia è un cancro, il 9 luglio 1943 si diffondono inesorabilmente le sue metastasi. Il 20 luglio, su un carro armato americano con un “drappo color giallo-oro sulla torretta, che come riconoscimento aveva al centro una grande L per indicare Luciano a indicare “Cosa Nostra”, arriva a Villalba don Calogero Vizzini. Da lui, con lui, “referente in Sicilia delle organizzazioni criminali americane” e di quella che chiamavano “alta mafia”, si concretizza il patto Stato-mafia, e più precisamente si ha il battesimo del nuovo sistema: “La prima Repubblica […], anche se non ancora ufficialmente costituita, si avviava con il capo della mafia siciliana e i diplomatici USA” a occupare le varie amministrazioni, “a cominciare da quella più importante di Palermo”, che dopo don Lucio Tasca fecero seguito Salvo Lima e Ciancimino, per continuare con Buscetta, Spatola, Mutolo e altri patrioti antifascisti.

Il 12 febbraio del 1947, Lucky Luciano, il padrino della patria, sbarcò dal Laura Keene accolto dalla banda che suonò per l’occasione Stars and Stripes forever. Lo accolse don Calogero Vizzini: “So che vi ha parlato di me un amico comune, don Vito Genovese. Sono a vostra completa disposizione. Vedrete che potremo fare molte buone cose insieme”.

Nacque così questa repubblica democratica: concepita nel carcere di massima sicurezza di Comstock, gestita da badogliani e mafiosi, partorita con gli strumenti dei gangster americani e battezzata con il crisma dell’antifascismo.

Tutto il resto è fumo propagandistico per insabbiare l’abietta fecondazione.

Per approfondimenti:

Aldo Santamaria, I padrini della patria”, Settimo Sigillo, Roma

Carlo Maria Lomartire, La prima trattativa Stato-mafia (1942-1946), Mursia, Milano.