Ne ho sentite di fiabe lacrimevoli tutte impostate sull’amore verso il prossimo, ma una tanto untuosa quanto infida come l’intervista rilasciata da Silvia Romano fino ad ora non ero mai riuscito a leggere.

E che nessuno mi tiri fuori la solita argomentazione psichiatrica della “Sindrome di Stoccolma”, che insieme al “Disturbo post-traumatico da stress”, ai traumi infantili, alla carenza affettiva e ad altre impostazioni psicopatologiche, sono troppo spesso scappatoie utili in ambito giudiziario e assicurativo per ridurre una pena od ottenere vantaggi economici.

Silvia Romano è una convertita, e come tale deve assumersi la responsabilità delle sue dichiarazioni.

La sua cultura religiosa e i suoi dettami etici sono semplici istruzioni segnate dalla inconfutabilità della legge coranica non negoziabile né interpretabile.

La sua copertura rientra nel concetto del corpo femminile come origine e movente del peccato e della tentazione, all’interno di una fede – come sottolinea Adonis – che “ha deformato il desiderio, la sessualità e l’amore. Arrivo a dire che ha annullato l’amore. [Perché] l’Islam ha ucciso la donna”.

Toccante il passaggio quando parla del suo afflato caritatevole contro le ingiustizie – “Molto sensibile nei confronti dei bambini, delle donne maltrattate” –, ma non comprendo se questa sua afflizione buonista sia rivolta anche contro la consuetudine delle spose-bambine, della pratica dell’infibulazione, della lapidazione per adulterio o apostasia. Forse no, perché questa è la volontà del profeta.

Certo, anche la sua consapevolezza della persecuzione dei musulmani dall’inizio dell’Islam ha un tocco struggente. Si riferiva forse, nella modernità, a Salman Rushdie condannato a morte con una fatwa, tanto per citarne uno famoso, o ai musulmani non allineati, non conformisti, semplicemente pensanti, che creano disturbo e scandalo nel contesto ortodosso radicale.

Il ridicolo raggiunge il sublime quando si lagna degli attacchi sofferti per il suo diverso modo di vestire, quando lei, invece, meschina, non si sentiva libera prima, quando “subivo un’imposizione da parte della società”. Mentre, ovviamente, le donne incarcerate perché con il volto scoperto davanti all’uomo o perché alla guida dell’automobile sono soltanto delle poco di buono che non apprezzano la vera libertà interiore prescritta dalla religione.

E quando afferma di essersi sentita prima oppressa dalla società anche nell’abbigliamento, ogni presunzione di pensiero e di confronto viene meno: o ci fa, o ci è. Lei tace su tutto ciò che non può dire, forse perché certe letture le sono proibite, di autrici come Souad Sbai, Amina Sboui, o Hirsi Ali, la quale osservò, giustamente, che “ci sono cose che devono essere dette e ci sono occasioni in cui il silenzio diventa complice dell’ingiustizia”.

E allora, per rievocare il buon Giulio Andreotti, quello del “pensar male è un peccato, ma qualche volta ci si azzecca”, esplicitiamo un quesito: l’oppressiva società occidentale ha pagato dei milioni di euro per liberarla, ma se era già libera, perché ritornare nel paese dell’oppressione? Che la taqiyya c’entri in una operazione all’interno di una strategia dei Fratelli musulmani?

La mia sospettosità è sicuramente deplorevole, ma il suo comportamento è altrettanto equivoco.