Mentre le femministe italiane sfilano ostentando la Madonna a forma di vagina, guardandosi bene dall’esibire un simbolo di Amina, la madre di Maometto, magari in una protesta in Arabia Saudita, e tempo addietro le esilaranti Bonino, Boldrini e Mogherini ostentavano il velo per rispetto delle tradizioni altrui, c’è uno psicoanalista tunisino, Fethi Benslama, pro-fessore di Psicopatologia all’Università Diderot di Parigi, che di Islam e di psiche se ne intende, che ha affrontato con cognizione di causa la questione femminile musulmana.
Il suo saggio, “La psicoanalisi alla prova dell’Islam”, è un lavoro arduo da studiare, anche per gli addetti ai lavori, ma fa comprendere i fondamenti simbolici e mitici dell’istituzione del velo – e più ancora del niqab e del burka – all’interno di quella che lui chiama “sociologia politica” dell’Islam.
Tutto ha origine in un tempo lontano. Maometto si confida con Kadigia, la sua prima e anziana moglie, di avere allucinazioni visive e uditive e di essere terrorizzato dalla presenza di Satana. A quel punto lei cosa fa: si toglie il velo e le dispercezioni scompaiono; quindi tranquillizza il marito su quelle presenze che erano di un angelo e non di un demone.
Da questa constatazione parte un cortocircuito psicologico e potremmo dire concettuale che ha una sua logica e le conseguenze teologicamente devastanti: se quando la donna si toglie il velo l’angelo fugge, vuol dire che la donna a capo scoperto è una attrazione per Satana, se non una sua complice.
Dall’intuizione di Kadigia e dal suo gesto la deriva teocratica fondamentalista rompe ogni argine di ragionevolezza e di buon senso: la donna diventa un soggetto pericoloso perché potente nel suo presagio e nella sua attrazione del male, quindi criminale nell’esporre la bellezza e nell’esercitare la libertà, “ausiliaria del demone, la cui astuzia è immensa”, annota Benslama.
Il velo diventa, a questo punto, il simbolo del divieto allo sguardo per il corpo “un filtro che sbarazza e premunisce dai suoi effetti conturbanti” e, per l’ideologia teocratica, il corpo femminile si concretizza come “corpo politico”, che rompendo con la verità e la purezza coranica si traduce in una “perversione della comunità e delle sue leggi”, quindi “un male necessario”, ma da nascondere, da imballare, da segregare entro le mura domestiche.
Scatta, a questo punto, l’operazione culturale, con l’identico cortocircuito già indicato: se la donna è dotata di intuito incontrollabile, il negarle l’istruzione è un atto indispensabile per salvaguardare l’integrità della parola, perché “la dottrina della purezza innocente è al tempo stesso una dottrina dell’ignoranza”.
Ecco, in un modesto riassunto, la concezione della donna nell’Islam, oltre ad altri argomenti non riassumibili come i matrimoni combinati delle bambine, la verginità, il divieto di guidare e di uscire da sole, le punizioni corporali ed altre amene abitudini tralasciate dalla retorica femminista italica e occidentale.
A volte mi è capitato di pensare che qualche anno di sharia potrebbe liberarci dallo squallore di certe figure vili, ignoranti e dedite alla blasfemia; poi mi ricredo, considerando l’importanza di certe donne coraggiose, erudite ed educate che combattono per ben altri valori di libertà, e stare al loro fianco diventa uno stimolo prestigioso per un percorso condiviso.