Un tempo, la merceologia – “scienza che studia i beni materiali prodotti dall’uomo e oggetto di commercio, e i relativi processi di produzione e di scambio”– era argomento di apprendimento presso gli istituti scolastici di avviamento professionale. Oggi, analizzando la forma ed il contenuto delle proposizioni politiche, è assurta a ruolo di motore trainante dei progetti istituzionali e dei programmi elettorali. L’assassinio delle idee, riconosciuto trasversalmente come atto di giustizia per tutti i mali che queste avrebbero prodotto negli ultimi duecento anni, ha lasciato un vuoto incolmabile che è stato prontamente occupato dal realismo contingente dei suoi giustizieri.

A fronte del panorama della storia, con i suoi momenti di oscurità alternati ai periodi di bagliore anche sanguinante, c’è rimasto solo lo scenario della cronaca con il suo grigiore diffuso intervallato da brevi attimi di chiarore sfibrato.

Leggere i proclami del fronte governativo o gli appelli alla mobilitazione delle forze antagoniste dà sempre la stessa sensazione di noiosa pretenziosità – un misto tra il menù calibrato di un MacDonald e il libretto di istruzioni dell’ultimo prodotto informatico.

Questo non è il linguaggio della politica – alla faccia di tutti i tromboni dell’attualismo democratico – ma la comunicazione commerciale di un marketing affaristico. Sia che si tratti di un trattato economico con la Cina o l’islamismo turco contro l’Europa, sia che si declami o si stigmatizzi la presenza militare nei teatri di guerra o si pianga per gli annuali disastri ambientali, tutto è intriso di commercio, di speculazione, di ritorno economico. Non c’è nulla che sfugga alla logica del capitale, nulla che rientri nel desiderio assoluto di un destino della storia.

La politica serva dell’economia senza il coraggio e l’orgoglio di decidere. Il servilismo è una piaga trasversale, e ognuno crede di essere più furbo e scaltro dell’altro.

In un’intervista rilasciata a Fernando Savater, Cioran, riferendosi ad una campagna elettorale in Francia, disse che “se non fosse per la sua componente utopistica sarebbe una zuffa da bottegai…”. Questa è l’analisi calzante di ciò che avviene in Italia, in Europa e nell’attuale mondo globalizzato: un enorme mercato in cui i protagonisti del commercio – esercenti di fresca nomina e di scadente biografia – contrattano prezzi politici per manovrare i loro spazi territoriali ed il loro potere elettorale. Sullo sfondo, il tavolo verde del capitale gestito da spregiudicati ed oscuri croupiers.

Nel tempo andato ci sono stati fenomeni culturali che hanno convogliato entusiasmi ed idee – un decadentismo inglese, un romanticismo tedesco, un futurismo italiano –: grandi movimenti di pensiero che in misura diversa hanno influenzato lo spirito di intere nazioni permettendo il mantenimento delle singole identità. Ora l’unico collante che i tenutari del potere credono di poter diffondere è quello generico del multiculturalismo e del meticciato, assecondato e rinforzato da una generica complicità su base economica.

La soppressione dell’utopia – il grande motore visionario della storia – ha dimostrato la debolezza della storia stessa, perché “è l’utopia a riscattare la storia”. Un periodo ed una politica che non abbiano delle idee da gettare sul campo dell’esistenza dell’uomo e delle nazioni, è un periodo di triste aridità ed una storia ridotta ad agenda commerciale. La mancanza di “immaginazione metafisica” – per dirla alla Cioran – ha portato a ridurre ogni tensione a ragionamento, ogni progetto a rendiconto, ogni volontà ad interesse.

Quando, poi, la manovra rischia di essere particolarmente evidente, e quindi facilmente comprensibile e denunciabile, allora si dà una ripulita all’immagine grazie al marketing più trainante e più annichilente della modernità: la democrazia. I fatti più loschi, le operazioni più azzardate, le imprese più sospette vengono camuffate dalla grande intesa democratica. In questo modo il linguaggio passa dal bieco concretismo mercantile all’ingannevole astrattezza demagogica – due paradigmi costantemente intersecantesi e simboli inossidabili della modernità.

I padroni del vapore hanno voluto togliere all’uomo “la ricerca dell’utopia [che] è una ricerca religiosa”, e gli hanno lasciato la possibilità di rovistare nel quotidiano prosaico e terreno; con ciò, la parola ha perduto qualunque connotato poetico ed evocativo per assestarsi sulla semplicistica pratica informativa e comunicativa. L’uomo stesso è stato ridotto a merce di scambio, grazie alla svendita dei suoi desideri e alla messa all’asta dei suoi ideali.

Ha ragione – come sempre – Jünger: non c’è in vista nessuna redenzione, se non attraverso la voce di un poeta o la passione incontrollabile del fuoco.