Da tempo siamo condizionati dall’idea del ‘fare’, del ‘manifestare’, dell’‘apparire’, una politica focalizzata sulla prassi amministrativa e, al massimo, su inutili proclami di principio che poi, alla resa dei conti, si dimostrano privi di ogni supporto di pensiero e di dottrina.

I politicanti, perché politici è ben altro, continuano a ragionare – quando arrivano – nei termini ottocenteschi di destra e di sinistra, oppure, per i più fossilizzati, in quelli di fascismo e antifascismo, di comunismo e di anticomunismo. E mentre loro proseguono l’esistenza in una fantasia disancorata dai parametri di realtà, questa realtà presenta quotidianamente i suoi conti senza che nessuno sia capace di decifrarne i contenuti.

Aleksandr Dugin, nella sua Quarta teoria politica, offre un’opportunità nuova non solo di interpretazione di questa realtà, ma di procedure più affilate e pericolose per affrontarla.

I presupposti sono più che evidenti, per chi li vuole vedere. Le due idee forza del ‘900, il fascismo (con il nazionalsocialismo venuto dopo) e il comunismo sono opzioni politiche finite e irripetibili per varie condizioni inesistenti. Ciò che è rimasto di vincente non è neanche il liberalismo della vecchia scuola economica, ma un post-liberalismo che si è trasformato lentamente e con subliminale aggressività in una ideologia, in una religione, in un dogma intoccabile.

Morto il comunismo per vecchiaia, per consunzione, e ucciso il fascismo con una guerra totale di varie complicità, il liberalismo ha prevalso attaccando direttamente il soggetto-uomo, la sua visione di vita e del mondo.

Il centro, osserva Dugin, è dato da un potere senza volto, da una gestione manageriale affidata a grigi burocrati e a cinici tecnocrati che ubbidiscono alla finanza transnazionale. È la periferia quella zona in cui è ancora attiva e vitale l’energia di cambiamento e di rivoluzione. Quella periferia che elettoralmente sostiene i movimenti sovranisti, e che simbolicamente difende i valori della tradizione. Al centro l’élite finanziaria e suoi complici, alle periferie il popolo e la sua potenza identitaria.

Il liberal-capitalismo ha attaccato l’uomo nella sua soggettività, nelle sue radici ontologiche e spirituali, nella sua essenza di destino. Con il grimaldello illusorio e ipnotico dei diritti gli ha fatto credere di poter diventare ciò che vuole, quando in realtà lo ha fatto diventare ciò che era deciso da altre agenzie di manipolazione che diventasse.

<<Il capitalismo è assimilabile a un etere velenoso che avvolge tutta l’atmosfera, non una fortezza da assediare>>[1], ha affermato Costanzo Preve, ed è contro questo mostro senza luogo e senza volto che deve essere ingaggiata la battaglia.

Contro il relativismo generalizzato per il quale tutto è possibile e niente può essere definito, è indispensabile una rivoluzione culturale, un movimento di resistenza innanzitutto di natura psichica e spirituale che rifiuti il liberalismo come ineluttabile destino e che sappia cogliere, rielaborare e fare proprie alcune idee-forza delle passate ideologie, decantate da errori e superstizioni.

Questa rivoluzione deve riattivare, rianimare l’uomo come animale politico, portatore di senso e di progetto. La politicizzazione dell’uomo comporta anche la rifondazione dello Stato e della Comunità, la riconquista dell’identità non solo della persona, ma anche di quella nazionale, culturale, sessuale e persino umana. Solo così si può pensare a costruire un governo di autorità e di decisione, che sostituisca quell’entità informe ma condizionante che è la sedicente società civile, portatrice del melting pot cosmopolita.

Finite le ideologie, accusate di essere state fondatrici di condizioni totalitarie, ci troviamo immersi nel più feroce totalitarismo che ha sostituito la forza fisica con la sedazione psichica. È il totalitarismo liberal-democratico del pensiero unico, del mercato globale, dell’omicidio della critica, della demonizzazione della verità. È il totalitarismo transumanista, dove l’uomo è un individuo oggettivizzato a merce, a consumatore e strumento. Come correttamente e approfonditamente denuncia Dugin: stiamo vivendo non la liberazione dell’uomo, ma la liberazione dall’uomo. In questo segno è il Regno dell’Anticristo.

Ecco perché la battaglia economica è uno degli aspetti di questa guerra. Perché l’altro livello, quello decisivo e costituente la rivoluzione, è di carattere etico, intellettuale, trascendente, ed è inquadrabile in due dispositivi reciprocamente influenti: l’uomo e il popolo.

L’uomo come Soggetto Radicale, impermeabile alle seduzioni del progressismo; il Soldato Politico che pretende quella libertà che il sistema quotidianamente nega e distorce.

Il Popolo, portatore di princìpi, di miti e di idee, tanto detestato dalle élite globaliste e finanziarie da usare il termine populismo come un insulto e, contemporaneamente, terrorizzate dal veder messo sotto accusa il proprio potere egemonico.

Questa rivoluzione non sarà solo un movimento organizzato per la conquista di spazi politici, ma una lotta senza quartiere per la vita, per la giustizia, per la verità e per il destino.


[1] C. PREVE / L. TEDESCHI, Dialoghi sull’Europa e sul Nuovo Ordine Mondiale, i Centotalleri, Padova 2015, p. 120.